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5 marzo 2013

Chávez, eroe o tiranno? Di sé diceva: “Sono un soldato”
di Angela Nocioni

Diceva di lui Rangel: "È un errore demonizzare Chavez, così come sarebbe santificarlo. Se non fosse comparso lui ce ne sarebbe stato un altro. Per come eravamo ridotti avremmo potuto avere Pinochet"

Un eroe degli oppressi? Un tiranno? Un caudillo come l’America latina ne ha conosciuti tanti? O un leader carismatico senza rivali nell’ora della conquista del consenso? Hugo Rafael Chavez Frias di sé diceva “sono un soldato”. E quella, alla fine, è l’identità che ha rivendicato fino all’ultimo.

Nato sotto il segno del leone, il 28 luglio 1954, sangue bianco, nero e indio nelle vene, figlio di due maestri elementari della provincia profonda, los llanos, una pianura quasi deserta tra la cordigliera delle Ande e le valli caldissime del fiume Orinoco. L’emancipazione è avvenuta attraverso la carriera militare, studi da autodidatta in caserma: gli eroi dell’indipendenza e il mito di Simon Bolivar, “el libertador”.

Poi la fuga dalle campagne e l’arrivo a Caracas. Tenente colonnello molto amato dai giovanissimi soldati, nel 1992 si mette capo di un tentativo di golpe contro il governo di Carlos Andres Perez, fradicio di corruzione. Lui l’ha sempre chiamata “insurrezione militare“, tecnicamente era un golpe. Fatto sta che fallì in poche ore. Chavez chiese ed ottenne di poter fare una dichiarazione in tv. Si prese la responsabilità dell’accaduto, rivendicò le ragioni per abbattere quel governo e pronunciò il famoso “por ahora”. Disse: abbiamo perso, per ora. Una promessa.

Doveva essere una dichiarazione di resa, ma fu il suo primo comizio televisivo. Un debutto. E un gran successo. Due anni di carcere senza pentimenti, mentre la figura di militare di sinistra attento alle esigenze dei più poveri prendeva corpo e assumeva i toni mistici della leggenda popolare.

Graziato dal presidente Caldera, esce dal carcere e fonda il “movimento quinta repubblica”. Va all’Avana appena uscito dalla cella, Fidel Castro lo aspetta all’aeroporto e lo riceve come un capo di Stato: particolare fondamentale nella storia privata di Chavez e nel futuro del Venezuela.

Nel 1998 si candida alle presidenziali e vince. Da quell’elezione in poi trionfa ogni volta che c’è una chiamata alle urne. Prima tutti i passaggi per l’assemblea costituente e per l’approvazione della nuova carta costituzionale. Poi la vittoria nel 2000.

L’11 aprile del 2002, viene travolto da un colpo di stato e portato via dal palazzo presidenziale, sotto il tiro dei cannoni. Si siede al suo posto Pedro Carmona, presidente della confindustria locale che, come primo atto, scioglie il Parlamento. “Pedrito il breve”, lo chiamerà Chavez che dopo 48 ore, salvato dalla ribellione di giovani tenenti sfuggiti ai golpisti, rientra nel palazzo presidenziale di Miraflores acclamato da una moltitudine di persone scese in strada a festeggiare. Quella lunghissima notte del 13 aprile 2002, con l’elicottero che planava sul centro di Caracas e la folla in visibilio, è per l’immaginario chavista la santificazione dell’ascesa al potere, l’inizio di una nuova epoca politica. Qualche mese dopo l’opposizione ci riprova. A dicembre una serrata di Pdvsa, l’impresa pubblica del petrolio di cui il Venezuela vive, mette in ginocchio il Paese. Dura quasi due mesi. Miracolosamente Chavez sopravvive al golpe. Da allora una serie lunghissima di libere elezioni, sempre vinte. Ha perso solo una volta, quando il voto popolare boccia una nuova carta costituzionale apertamente socialista.

Bravissimo a esasperare gli avversari, è stato la disperazione della destra venezuelana, il cui disorientamento davanti alle uscite del presidente è durato 14 anni. “Chavez los tiene locos” (Chavez li manda al manicomio) è uno degli slogan sempre in voga del chavismo.

Ha creato una nuova classe dirigente, usato il petrolio come arma di politica internazionale e ha occupato tutti i posti di potere dello Stato, utilizzando soprattutto militari, gli unici di cui si fida. La sua abilità fondamentale è stata la capacità di provocare l’avversario per poi annientarlo, il suo principale talento la capacità di usare la tv. Chavez prega, ride, canta, parla con lo slang delle baraccopoli, con le parole dei rapper neri dei sobborghi e con il tono dei predicatori evangelici. Lo fa attraverso lo schermo rivolgendosi direttamente al popolo, che lo premia col voto facendolo stravincere anche nei primi anni in cui il governo, prima di vincere la guerra contro le tv private, poteva contare solo su una tv malconcia e aveva contro cinque tv nazionali e tutte le radio.

Molto amato e molto odiato, personaggio per molti versi sfuggente. Diceva di lui i primi tempi Rangel, ex alleato politico e esponente della sinistra classica venezuelana: “E’ un errore demonizzare Chavez, così come sarebbe un errore santificarlo. Se non fosse comparso lui, ce ne sarebbe stato un altro. Fortunatamente con lui abbiamo modo di trasformare il Venezuela pacificamente. Per come eravamo ridotti, avremmo potuto avere un Pinochet“.

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