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http://www.foreignpolicy.com Salvare Siriani, una coperta alla volta Come sono diventato un operatore umanitario indipendente nella zona di guerra più mortale del mondo.
Kilis, Turchia - Io sono un ragazzo di 21 anni, operatore umanitario indipendente. Non lavoro per alcun paese o ONG, ma per i civili siriani. Il progetto che ho iniziato non vuole solo portare aiuto, ma si tratta di portare la speranza. L’idea era piccola e semplice: volevo portare coperte ai rifugiati. Prima di capire quello in cui stavo entrando, il problema si era fatto grande e complesso: Sono appena tornato da Aleppo, la più grande città in Siria, dove ho distribuito il mio secondo lotto di aiuti - 500 coperte. Tutto è cominciato quando ho finito uno scambio universitario in Corea del Sud e ho deciso di tornare a casa alla terra olandese. Dopo aver attraversato la Russia da est a ovest e da nord a sud, ai primi di ottobre sono finito ad Antakya, una città turca vicino al confine con la Siria, che è piena di profughi. E 'stato qui che ho incontrato Ali, un rifugiato da Aleppo. Ali era molto emozionato quando gli ho detto che venivo dai Paesi Bassi, alcuni anni fa, suo figlio si fece un amico olandese ad Aleppo. Quando questo ragazzo olandese sentito che la famiglia del suo amico era fuggito dalla città devastata dalla guerra, decise di scendere ad Antakya per incontrare il suo amico siriano ancora una volta. Incontrò la sua famiglia, tranne che per la persona che stava cercando. Il figlio di Ali era morto durante la fuga a causa dei bombardamenti del regime. Ascoltai la sua storia, inorridito. Non avevo idea di cosa dire. Ali mantenne la conversazione spiegando quanto fosse difficile la vita per i civili intrappolati in un mix letale di violenza, freddo, fame e incertezza. Cercai di continuare a viaggiare, ma la sua storia mi perseguitò. Volevo fare qualcosa per essere d’aiuto. Leggendo in merito alla situazione umanitaria in Siria, rimasi colpito da quanto aiuto era necessario. Sembrava che quasi nessuna delle grandi ONG portasse aiuti all'interno del paese. Fino ad ora, i paesi hanno donato meno del 4 per cento dei fondi che le Nazioni Unite ritengono necessari per attuare il programma di aiuti in Siria. Così decisi di visitare Bab al-Salam, un campo di fortuna situato a poche centinaia di metri oltre il confine con la Turchia. Il campo ospitava forse 4.000 siriani, che vivevano in condizioni miserabili. Fui accolto alla frontiera da un adolescente in tuta mimetica. Aveva una pistola, era la prima volta che vedevo un arma, a parte i giochi per computer. Mi mise un timbro d'ingresso gratuito in Siria sul passaporto e disse: - Welcome to free Siria - Prima che me ne rendessi conto, stavo parlando con l’amministrazione del campo. Bevemmo tè dolce e mi chiesero perché ero venuto. Spiegai loro che volevo aiutare, e offrii loro 100 coperte acquistate con i miei risparmi. La mia unica rechiesta era quella di distribuire le coperte personalmente, giravano molte storie su aiuti scomparsi o di venduti in cambio di armi. Il direttore e i suoi amici scoppiarono a ridere. - Abbiamo bisogno di 4.000 coperte - disse, - 100 sono inutili! Rimasi deluso, ma ritrovai subito la mia fiducia al ritorno in Kilis, il villaggio alla frontiera turca dove ora vivo. Decisi di acquistare le coperte, sapevo di poter trovare un modo per portarle a chi ne avave bisogno. Ai primi di novembre, dopo alcune settimane che tentavo di entrare in Siria, la magia accadde. Hassan Kwaja, un rifugiato siriano di Aleppo, venne da me con il sorriso più grande che avessi mai visto e mi disse che i suoi amici potevano portarmi alla sua città natale. C’era un amico con un camion, che aveva già fatto opera di soccorso ad Aleppo, e che avrebbe potuto aiutarmi a trovare le persone che soffrono il freddo. La sera dopo mi trovavo in un posto che non avevo mai pensato di visitare, ne avrei mai voluto essere. Eravamo ad Aleppo, con le mie 100 coperte. Non ero mai stato in una zona di conflitto, prima, ed ero spaventato a morte. Il cielo nuvoloso era illuminato ogni 30 secondi dai bombardamenti. Abbiamo dovuto correre ai ripari quando un proiettile di artiglieria arrivò fischiando sopra le nostre teste, abbattendosi pericolosamente vicino. Il cuore mi batteva: E se avessi fatto una scelta stupida e potenzialmente fatale, venendo ad Aleppo solo per distribuire coperte? Quella notte, capii la realtà della vita quotidiana per i 2 milioni di abitanti di Aleppo. Il conflitto è inevitabile e la paura costante: la paura di mandare i figli a scuola che sono spesso prese di mira da aerei da caccia e bombardamenti. La paura della malattia, dal momento che l'unico aiuto medico è offerto da ospedali da campo composti da attivisti che non hanno una formazione adeguata, né materiali adatti. La paura del freddo e del buio, causato da continui blackout elettrici. Ma anche la paura dell’illegalità, la paura di quello che viene dopo. La mattina seguente, trovai un rinnovato senso di scopo, quando caricammo le coperte su di un piccolo camion e andammo in un quartiere pieno di sfollati. I siriani sapevano che l'inverno stava arrivando e avevano un drammatico bisogno delle coperte. Si erano lasciati tutto alle spalle e ora condividevano appartamenti non ammobiliati con altre famiglie, senza riscaldamento ne stufe per cucinare. Le notti siriane erano incredibilmente fredde. Il primo viaggio, fu ancora sopportabile. Ma quando tornai qualche giorno dopo, anche tre giacche non riuscivano a farmi smettere di tremare mentre la temperature era sotto lo zero. Naturalmente, la maggior parte dei siriani non hanno conforti. Con i prezzi alle stelle per il gas e il gasolio e una carenza di legno, abbiamo trovato un certo numero di famiglie che bruciavano gomma, sacchetti di plastica, e coperte di lana anche per stare al caldo, i bambini avevano la tosse dal denso fumo nero degli incendi. Quello che vidi ad Aleppo mi fece capire che era necessario altro aiuto. Così volai ritorno nei Paesi Bassi e cercai di pubblicizzare il mio progetto, dopo che una stazione televisiva olandese s’interessò alla mia storia, le donazioni mi hanno travolto. Comprai il secondo lotto, 500 coperte questa volta, e lo portai a chi ne aveva bisogno. Aleppo è ora più tranquilla rispetto a qualche mese fa, i bombardamenti sono diminuiti, e ho visto pochi aerei da caccia sopra la città nel mio recente viaggio. Ho speso la maggior parte del mio tempo in un quartiere relativamente tranquillo dove molti sfollati hanno trovato rifugio. La brigata locale del FSA mi ha detto che la zona viene bombardata ogni due settimane. Nessun problema, hanno detto. Ma la mia ultima notte, quando almeno cinque granate vennero giù in meno di 20 minuti, dimostra quanto sia instabile la situazione. La più vicina cadde a circa 150 metri di distanza dal punto in cui stavo dormendo, e lasciò una madre morta e i suoi due bambini feriti in modo permanente. In totale, quattro persone sono morte, e molte altre sono state ferite. Approvvigionarsi e fornire aiuti comporta un sacco di attese: per le persone, promesse, auto, benzina, la sicurezza. Siamo alla fine di gennaio, se dovessi iniziare il processo di organizzazione di un altro carico di coperte, verrebbero utilizzate solo per un breve periodo, prima della fine dell'inverno. Ora le esigenze dei siriani sono cambiate, e io sto cambiando le mie spedizioni di conseguenza. Dopo sei mesi di brutale guerra civile, che ha incluso il bombardamento di file per il pane ai forni, gli abitanti di Aleppo adesso hanno bisogno di cibo. Per questo motivo, ho deciso che la mia prossima spedizione di aiuti saranno alimenti in scatola. Ma che tipo di alimenti dovrei mettere in ogni scatola? Ho guardato le scatole alimentari di alcune ONG, ma non sono rimasto soddisfatto. Gli esperti hanno tutti opinioni diverse e diverse motivazioni per la composizione dei diversi prodotti. Alcuni esperti sostengono le barrette nutritive. Ho visto scatole che sono state quasi completamente riempite di pane, mentre in altre mancavano gli ingredienti di base che sapevo vengono utilizzati nelle cucine siriane. Ho pensato che se volevo fare una scatola di alimenti, non dovevo guardare a ciò che facevano le ONG. Quale modo migliore per scoprire le esigenze locali che chiedere alle donne siriane che cosa avrebbero usato in una settimana normale? Così ho fatto. Come risultato, la scatola alimentare conterrà gli ingredienti normalmente utilizzati in una famiglia siriana, eccetto per i prodotti deperibili, quali yogurt e frutta. Avendo deciso cosa includere, ho fatto gli ordini del cibo ieri. Ora, non resta che preparare le scatole e distribuirle in Siria. Lavorare in Siria è rischioso, ma questo non fa di me uno spericolato. Le uniche immagini che si vedono alla televisione sono della prima linea: carri armati, i Mig, gli scontri a fuoco e le vittime. Dietro la linea del fronte, l'unico rischio viene dalle bombe, granate e missili che cadono dal cielo. Questo è un rischio che si sceglie di prendere, sapendo che la possibilità c'è, ma che ci sia poco da fare per evitarlo, anche il fotografo di guerra più esperto o un soldato non può prevedere dove cadrà una granata. Non ha nulla a che fare con l’incoscienza, tutto ciò ha a che fare con il desiderio di portare un pò di aiuto ai civili che sono altrimenti dimenticati e ignorati. Nel suo cuore, il mio progetto è inteso come una dichiarazione al popolo siriano, che non sono stati dimenticati. Una dichiarazione di condanna della comunità internazionale per stare con le mani in mano mentre i siriani sono lasciati a soffrire. Una dichiarazione che, se a 21 anni, senza esperienza alcuna si può portare aiuto ai siriani, allora le grandi organizzazioni internazionali di aiuto dovrebbero essere in grado di fare altrettanto. So che sto solo portando le mie coperte e le mie scatole di cibo che sono ben lungi dall'essere sufficienti. Ma con ogni piccola spedizione, sto anche portando speranza, la speranza per un futuro migliore, la speranza che la situazione dei rifugiati siriani non venga dimenticata. Non è molto, ma almeno sto facendo qualcosa. http://www.foreignpolicy.com Saving Syrians, One Blanket at a Time How I became a one-man aid worker in the world's deadliest war zone. Kilis, Turkey I am a 21-year-old, independent aid worker. I don't work for any country or NGO, but for Syrian civilians. The project I started isn't just about bringing help, it's about bringing hope. The idea started small and simple: I wanted to take blankets to refugees. Before I knew what I was getting into, it had grown big and complex: I've just come back from Aleppo, the largest city in Syria, where I delivered my second batch of aid -- 500 blankets. It all started when I finished a university exchange in South Korea and decided to travel back home to the Netherlands overland. After crossing Russia from east to west and north to south, in early October I ended up in Antakya, a Turkish city near the Syrian border that is teeming with refugees. It was here that I met Ali, a refugee from Aleppo. Ali was very excited when I told him I came from the Netherlands -- some years ago, his son made a Dutch friend in Aleppo. When this Dutch guy heard that his friend's family had escaped the war-torn city, he decided to come down to Antakya to meet his Syrian friend once more. He met the family, except for the person he was looking for. Ali's son had died while fleeing due to regime shelling. I listened to his story, horrified. I had no idea what to say. Ali kept the conversation going by explaining how difficult life was now for innocent civilians caught up in a deadly mix of violence, cold, hunger, and uncertainty. I tried to keep travelling, but his story haunted me. I wanted to do something to help. Reading up about the humanitarian situation in Syria, I was struck by how much aid was needed. It seemed that hardly any of the big NGOs were bringing aid inside the country. So far, countries have given less than 4 percent of the funds that the United Nations said is necessary to implement its aid program in Syria. I decided to visit Bab al-Salam, a makeshift camp situated just a few hundred feet into Syria, across the Turkish border. The camp hosted perhaps 4,000 Syrians, living in miserable conditions. I was greeted at the border by a teenager in a camouflage outfit. He held a gun -- the first time I'd seen such a weapon, aside from computer games. I was given a Free Syria entry stamp in my passport and told: "Welcome to Free Syria." Before I knew it, I was speaking with the management of the camp. We drank sweet tea and they asked me what I came for. I explained that I wanted to help, and offered them 100 blankets bought from my own savings. My only requirement was to hand out the blankets myself, there were stories floating around about aid disappearing or being sold for weapons. The manager and his friends burst out laughing. "We need 4,000 blankets", he said, "100 is pointless!" I was disappointed, but I quickly regained my confidence upon returning to Kilis, the Turkish border village where I now live. I decided to buy the blankets; I knew I could find a way to get them to people in need. In early November, after a few weeks of trying to get in to Syria, magic happened. Hassan Kwaja, a Syrian refugee from Aleppo, came to me with the biggest smile I'd ever seen and told me that his friends could take me to his hometown. They had a friend with a truck, they had done relief work in Aleppo before, and they could help me find people suffering in the cold. The next evening I was in a place I had never thought to go to and never wanted to be. We were in Aleppo, with my 100 blankets. I'd never been to a conflict zone before, and I was scared to death. The cloudy sky was illuminated every 30 seconds from shelling. We had to run for cover when artillery shells came whistling over our heads, smashing down dangerously close. My heart was pounding: Had I made a stupid and potentially fatal choice by coming to Aleppo just to hand out blankets? That night, I understood the reality of daily life for the 2 million residents of Aleppo. The conflict is inescapable and the fear is constant: fear of sending your kids to schools that are often targeted by fighter jets and shelling. Fear of illness, since the only medical help is offered at field hospitals staffed by activists with neither proper training nor proper materials. Fear of cold and darkness, driven by near constant electricity blackouts. But also fear of fragmentation and lawlessness -- fear of what comes next. In the morning, I found a renewed sense of purpose as we loaded the blankets into a small truck and went to a neighborhood filled with displaced people. Syrians wanted the blankets badly -- they knew winter was coming. They had left everything behind and were now sharing unfurnished apartments with other families, without heating or stoves to cook on. Syrian nights are incredibly cold. On the first trip, they were still bearable. When I returned a few days ago, even three jackets couldn't stop me shivering as temperatures hovered around freezing. Of course, most Syrians don't have such comforts: With skyrocketing prices for gas and diesel and a shortage of wood, we found a number of families burning rubber, plastic bags, and even woolen blankets to stay warm -- children were coughing from the thick black smoke of the fires. What I saw in Aleppo made me realize more help was needed. I flew back to the Netherlands and sought publicity for my project -- after a Dutch TV station picked up the story, donations came flooding in. I bought the second batch, 500 blankets this time, and took them to those in need. Aleppo is quieter now than a few months ago -- the shelling has decreased, and I hardly saw any fighter jets above the city on my recent trip. Most of my time was spent in a relatively peaceful neighborhood where many displaced people had found refuge. Local FSA brigades told me the area got shelled every other week with one or two shells. "No problem" they said. But my last night, when no less than five shells came down within 20 minutes, proved just how volatile the situation is. The closest one was about 150 feet away from where I was sleeping, and left a mother dead and her two kids permanently injured. In total, four people died, and many more were wounded. Sourcing and delivering aid involves a lot of waiting: for people, promises, cars, petrol, security. It's now the end of January -- if I were to begin the process of organizing another blanket drive, they would only be used for a short time, before the end of winter. Syrians' needs have changed, and I am changing my shipments accordingly. After enduring six months of a brutal civil war -- which has included the shelling of bakery bread lines -- the residents of Aleppo now need food. For that reason, I decided that my next shipment of aid would be food boxes. But what supplies should go in each box? I looked at the food boxes of some NGOs but wasn't satisfied. Aid experts all had different opinions and motives for including different products. Some experts spoke about nutrition bars. I saw boxes that were almost entirely filled with bread, while some others lacked basic ingredients I knew were used in Syrian kitchens. I figured that if I wanted to make a food box, I shouldn't look at what NGOs were doing -- what better way to discover local needs than to ask Syrian women what they would use in a regular week? So I did. As a result, my food box will contain the ingredients normally used in a Syrian household, except for perishable goods such as yogurt and fruit. Having decided what to include, I placed the food orders yesterday. Now, all that remains is preparing the boxes and distributing them in Syria. Working in Syria contains inherent risks -- but that doesn't make me reckless. The only images that make it to television are of the front line: tanks, MIGs, gun battles, and victims. Behind the front line, the only risk is from the bombs, shells, and missiles that fall from the sky. That's a risk you choose to take, knowing the chance is there, but that there is little you can do to avoid it -- even the most experienced war photographer or soldier cannot predict where a shell will fall. It has nothing to do with recklessness, and everything to do with eagerness to bring some help to civilians that are otherwise forgotten and ignored. At its heart, my project is meant as a statement to the Syrian people: You have not been forgotten. A statement condemning the international community for sitting on its hands while those in Syria are left to suffer. A statement that, if a 21-year-old without experience can bring help to Syria, then the big international aid organizations should be able to do so too. I know that I'm just bringing my blankets and my food boxes -- and far from enough. But with each small shipment, I'm also bringing hope: Hope for a better future; hope that the plight of Syrian refugees will not feel forgotten. It might be small, but at least I'm doing something.
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