www.reteccp.org La testimonianza di un dirigente del Movimento Nonviolento Siriano, raccolta a margine del Forum Sociale di Tunisi da Maurizio Cucci e Carla Biavati Mi chiamo Ibrahim Al Assil e sono un membro del movimento nonviolento siriano, mi sono laureato in economia e poi ho fatto un master di economia aziendale in Inghilterra, e lavoro nel campo della ricerca sulle fidejussioni. Sono espatriato dalla Siria e attualmente vivo a Dubai. Mi sono unito al movimento nonviolento siriano quando la rivoluzione era iniziata da almeno tre mesi, i gruppi nonviolenti raccoglievano membri che iniziarono a lavorare in modo nonviolento fin dal 2003, erano conosciuti come gruppi di Darayya o Shebab Darayya, che è un sobborgo occidentale di Damasco. Questi giovani pianificavano marce silenziose contro la guerra in Iraq, fecero anche campagne contro il fumo, e altre lotte non violente, a causa di queste azioni molti di loro furono arrestati, alcuni per due settimane, altri per un paio di mesi e altri ancora per due anni. Aprirono anche una biblioteca gratuita dove chiunque poteva andare a prendere in prestito libri da leggere gratuitamente, c’era con loro anche uno sceicco il suo nome è Abdul Akram Al Sakka, anch’egli venne arrestato nel 2003 e rinchiuso per undici mesi prima di essere rilasciato, non ci crederete ma fu arrestato a causa della biblioteca. Oggi si trova ancora nelle prigioni del regime, dopo essere stato arrestato il 15 luglio del 2011. I gruppi organizzavano anche dei workshop segreti, perchè a quel tempo erano ricercati dalla polizia politica. Anche i kurdi crearono gruppi nonviolenti e anch’essi credevano nell’impegno nonviolento, insieme iniziarono discussioni di approfondimento della nonviolenza e incontrarono anche un filosofo siriano della nonviolenza il suo nome è Jawdat Said ed è uno dei più importanti filosofi mussulmani, egli crede nella nonviolenza e crede che l’Islam sia una religione nonviolenta, egli ha anche scritto diversi libri di tecniche e analisi. Quando iniziò la rivoluzione questi nonviolenti si raccolsero di nuovo insieme e altri si unirono a loro, e iniziarono un gruppo su facebook per organizzare manifestazioni in Darayya ed in altri posti. Crearono anche un foglio di notizie, e così una settimana dopo l’altra molte persone simpatizzarono con la nonviolenza unendosi ai nuovi gruppi, per questo iniziammo a pensare una strategia per la rivoluzione nonviolenta in Siria. Nei primi sei mesi tutto era veramente brillante, uscimmo con nuove tecniche; come ad esempio colorare le fontane con il rosso per denunciare i massacri, gettavamo vernice rossa anche sulle strade, lanciavamo palloncini colorati in aria con scritte contro il regime. In questo modo riuscivamo a muovere le emozioni nei cuori delle persone e al contempo erano, in qualche modo, manifestazioni sicure poiché liberando i palloncini dai tetti nessuno poteva vederti. Altre tecniche erano ad esempio; organizzare una manifestazione di tre minuti in un punto della città che non fosse raggiungibile dalla polizia in meno di tre minuti. Ogni partecipante arrivava da solo sul posto con altri scopi, andava in un negozio per comprare qualcosa, oppure s’incontrava con un’amica, o vedeva altri amici in un bar, eccetera … quando scoccava l’ora prefissata ci si raccoglieva tutti in mezzo ad un incrocio o ad una piazza e si manifestava per tre minuti con slogan nonviolenti poi, alla fine del terzo minuto tutti si disperdevano in ogni direzione. Un altro modo era quello di indire una manifestazione dove ognuno doveva essere vestito di bianco e nero, oppure di rosso eccetera … ci si trovava in un posto prefissato in silenzio, senza dire nulla, una folla di persone tutte vestite con gli stessi colori, e nessuno capiva cosa stesse succedendo, inoltre non era un reato vestirsi con un certo colore. Ma dopo la terza o la quarta volta, la polizia iniziò ad arrestare chiunque fosse vestito di quel particolare colore e anche questo creava un certo smarrimento. Gli attivisti nonviolenti erano diventati uno degli obiettivi della polizia, un nostro amico venne arrestato il 22 luglio 2011, mentre offriva una bottiglia d’acqua con una rosa ed un messaggio di pace ai soldati, dicendo loro cose come: siamo tutti dalla stessa parte, questa è una rivoluzione nonviolenta non sparateci. Lo catturarono e scomparve, da allora non ne sappiamo più nulla. Aveva 23 anni e studiava architettura all’università di Damasco. Il suo nome è Islam Dabbas originario di Darayya. Anche altri membri del movimento siriano nonviolento furono arrestati o uccisi e altri scomparvero. Più tardi, quando i cecchini sparavano dai tetti sui manifestanti ci si radunava tutti intorno al ferito urlando, in modo che arrivassero i soccorsi, che altrimenti avrebbero faticato a trovare il singolo ferito tre le migliaia di manifestanti. Poi iniziarono le diserzioni tra i soldati dell’esercito e altri presero le armi, la tendenza iniziò ad essere quella di proteggere le manifestazioni ed è così che iniziò la violenza. Ero al funerale di Ibrahim Shaban un bambino di nove anni ucciso il 14 ottobre del 2011 dal regime, il cui funerale fu la più grande manifestazione di protesta fatta a Damasco fino ad oggi, verso la fine del funerale i cecchini spararono sulla folla, anch’io ero là, i manifestanti iniziarono a lanciare pietre e a urlare e a disperdersi per poi raccogliersi tutti insieme di nuovo. Spararono su di noi e ci furono dei morti, alcuni nonviolenti con una più ferma consapevolezza ci invitavano a non urlare e a lasciare che facessero ciò che volevano. Altri invece furono presi dalla rabbia, specialmente gli amici e i parenti di coloro che erano stati uccisi o feriti, volevano andare a prendere i cecchini. In quel tempo non c’erano ancora armi ma sono certo che gli amici e i parenti dei martiri che morivano sotto il tiro dei cecchini andarono a comprare un arma qualsiasi pur di vendicare i propri cari. In quel tempo il conflitto non era affatto settario, nessuno accusava gli alawiti di essere degli assassini, durante le manifestazioni c’erano anche molti cristiani oltre agli alawiti e ai sunniti. C’è un martire che si chiama Bassel Shehadeh, era un cristiano che andava sempre alle preghiere del venerdì per poi uscire insieme agli altri per le proteste. Era studente di fotografia negli Usa e lasciò l’università all’inizio della rivoluzione per tornare in Siria. Durante il suo soggiorno a Homs ha insegnato fotografia a quindici allievi. Era un artista sensibile che ha girato innumerevoli video rilanciandoli su youtube da Homs. E’ stato ucciso il 28 maggio 2012 da un cecchino del regime. Dovete sapere che il regime baahtista controllava ogni luogo e reprimeva ogni raduno, ma non poteva controllare le preghiere del venerdì, perché tutti andavano alla moschea per la preghiera, ed ecco che la Moschea era diventato il posto centrale da dove iniziavano le manifestazioni, anche se non tutti erano islamici convenuti per pregare. I cecchini non appartenevano all’esercito, erano dei servizi di intelligence dell’aviazione, o dei servizi militari, o anche della sicurezza nazionale. Dopo alcuni mesi che l’esercito era in strada per reprimere le proteste, molti soldati ancora non sapevano niente della rivoluzione, perché non avevano telefoni ne televisioni in caserma e l’unica risorsa per ottenere informazioni erano i loro ufficiali che dicevano loro di attaccare i terroristi, ed essi obbedivano. In seguito, alcuni di loro iniziarono ad avere dei dubbi, non capivano perché dovevano sparare a gente pacifica. Inoltre noi lanciavamo slogan nonviolenti, ai soldati gridavamo pace … pace, e anche non sparate … eccetera, e così alcuni di loro che si rifiutavano di sparare, venivano fucilati sul posto. E anche per questo altri soldati iniziarono a disertare. Uno slogan molto usato dai nonviolenti era: se vuoi veramente proteggerci lascia l’esercito e vieni con noi. Ma dicevamo anche di non portare con se le armi, non vogliamo le tue armi, abbandona l’esercito e vieni con la gente e la gente ti nasconderà e ti proteggerà. Successe in Duma alla periferia di Damasco, alcuni soldati gettarono le armi e corsero verso la folla che li accolse al suo interno in un abbraccio fraterno. Allora gli uomini dei servizi di intelligence, si mescolarono alla folla e iniziarono a sparare sull’esercito, e i soldati iniziarono a convincersi che dovevano difendersi dalla folla. Così alcuni disertori e altri uomini che avevano armi decisero di salire sui tetti per difendere le manifestazioni, così quando i soldati sparavano sulla folla, alcuni oppositori rispondevano dai tetti sparando sui soldati, in modo che tutti potessero scappare via prima di essere arrestati. Dovete sapere che in Siria la gente preferisce essere uccisa piuttosto che essere arrestata, perché la tortura è orrenda e spesso dura per mesi. I servizi di intelligence giocarono anche su questa paura, mettendo in rete alcuni video in cui si vedevano le tecniche di tortura. E così la gente ebbe un’altra ragione per combattere fino alla morte piuttosto che lasciarsi arrestare dai baahtisti. Così passo passo il regime arrivò all’uso dei mortai, e le opposizioni iniziarono ad attaccare i check points. E anche quei soldati che custodivano pensieri di neutralità politica, ne col regime ne con le opposizioni, dovettero difendersi. Mentre i nonviolenti continuavano a predicare di non attaccare i soldati, perché così facendo li spingevano a reagire sparandoci. L’escalation era ormai innescata, molti soldati disertavano e altri prendevano le armi. Ed è in quel momento che emerse l’estremismo islamico. Dovete sapere che in Siria la maggioranza delle persone normali è mussulmana, di quell’Islam normale, pacifico e tollerante, come in tutte le religioni, ma quando la violenza è iniziata e i morti si contavano quotidianamente, molti hanno iniziato a dire che li uccidevano perché erano mussulmani, e la stampa di regime faceva loro eco accusandoli di essere salafiti e terroristi, e molti combattenti si dissero, ok siamo terroristi e islamisti e stiamo venendo ad uccidervi tutti. E così la nonviolenza iniziò ad essere criticata, vennero abbandonate le grandi manifestazioni, le tecniche nonviolente vennero considerate inutili. Quando gettavamo la vernice rossa sulle strade ci sparavano addosso, se non volevamo prendere le armi ci guardavano con sospetto. E’ allora che iniziarono ad entrare in Siria molti jihadisti stranieri, questi crearono nuovi gruppi armati che attaccavano l’esercito siriano, ecco perché oggi ci sono diversi gruppi di combattenti in Siria. Ci sono ancora persone pacifiche che credono in un paese pluralista e democratico, ci sono anche molti combattenti che credono in un paese pluralista e democratico e combattono per realizzarlo, non sono d’accordo con il loro modo violento di combattere ma posso assicurarvi che non sono jihadisti. Non hanno un progetto jihadista per il futuro della Siria. Sono certo che una volta abbattuto Bashar Al Assad essi abbandoneranno le armi e abbracceranno la vita civile per la costruzione del nuovo stato. Ma ci sono anche i jihadisti che hanno un progetto armato per la Siria e non credo vorranno abbandonare le armi una volta abbattuto il tiranno, perché hanno in mente di costruire uno stato islamista. Vorrei sottolineare questo concetto, non tutti quelli che professano la fede islamica sono jihadisti, non tutti coloro che si dicono difensori dell’Islam sono jihadisti. La maggioranza dei siriani identificano l’Islam con la tolleranza e quando dicono di voler difendere l’Islam intendono difendere la tolleranza e l’Islam democratico. Purtroppo ci sono anche molti gruppi di estremisti islamici che hanno un grande seguito di persone che li sostengono, e anche il regime è felice che costoro esistano. Sapete che c’è un ideologo di Al Qaida che si chiama Abu Musab al-Suri, è stato catturato a Quetta dai servizi di sicurezza pakistani nell’ottobre del 2005, poi consegnato in custodia agli americani e trasferito a Guantanamo alla fine del 2006. Il 2 settembre 2009, durante una breve intervista alla Reuters, sua moglie, Elena Moreno, ha detto che credeva che suo marito fosse stato deportato in Siria, dove era ricercato. Il 2 febbraio 2012, all’inizio della rivoluzione, un jihadista collegato online confermava che uno dei teorici più originali e rispettati della Jihad, Abu Musab al-Suri, era stato rilasciato da un carcere del regime siriano, perché iniziasse a fondare gruppi armati che il regime poteva poi accusare di essere terroristi. Arrivarono in quel tempo moltissimi combattenti di Al Qaida provenienti da diversi stati arabi, dalla Tunisia, dalla Libia, dalla Turchia, uno che venne ucciso proveniva perfino dall’Australia. Come nel 2003 quando il regime siriano spedì jihadisti a combattere in Iraq, oggi ritornavano a combattere in Siria, sono professionali ed esperti, molto ben armati ed è per questo che sono tra i gruppi paramilitari più forti. Inoltre ad ogni battaglia vinta aumentano i loro simpatizzanti, e naturalmente tutti questi sostenitori pensano che siano loro i migliori a combattere il regime e solo loro siano in grado di proteggere le loro famiglie dall’esercito siriano che essi temono come l’inferno. Questo è l’attuale scenario siriano, lo scenario che la comunità internazionale osserva da lontano, immobile su di un piedistallo senza fare nulla, un atteggiamento cinico e inaccettabile che sta conducendo la Siria verso il fallimento. Anche se Bashar Al Assad cadesse in pochi mesi, non ci sarebbe uno stato siriano. Se invece Bashar Al Assad rimanesse in carica, non sarebbe più il presidente della Siria ma solo uno dei tanti signori della guerra. Oggi la Siria settentrionale è stata liberata, e anche la Siria orientale. Se venisse liberata anche Damasco, Assad rimarrebbe in carica come un generale sul suo territorio, e temo che in quel momento nessuno, tanto meno la comunità internazionale, sarà più in grado di ricostruire lo stato siriano, con il controllo su tutti i suoi confini. La Siria così frazionata, senza un’autorità legittima diventerà un buco nero, il posto perfetto per i jihadisti dove costruire il loro califfato o qualsiasi altra cosa vogliano fare. Penso che ormai siamo giunti ad un momento cruciale, non è rimasto tempo. Io non dico come molti siriani che è tutta colpa nostra, è vero che inizialmente questo conflitto era tutto siriano, ma oggi si è trasformato in un conflitto regionale e si sta avviando a diventare un conflitto internazionale, molti paesi stranieri hanno progetti sulla Siria. Ed è per questo che oggi lo scenario siriano è anche responsabilità della comunità internazionale, perché non è solo la Siria ad essere uno stato fallito, c’è anche l’Iraq, poi c’è il Libano che è uno stato settario dove si confrontano diversi gruppi etnico ideologici, poi ci sono la Giordania e la Palestina. Tutta la regione potrebbe essere contagiata dall’orrore della guerra e dai jihadisti che arriverebbero anche dall’Afghanistan per combattere una guerra santa. Io penso che gli israeliani ed anche gli Usa non vogliono che Bashar se ne vada e che vinca la rivoluzione, perché pensano all’incognita di chi verrà dopo. Almeno Bashar era conosciuto, era un nemico di Israele ma non lo combatteva. Essi avevano alcune cose in comune ed altre in conflitto, ma almeno i confini di Israele erano al sicuro. Così si spiega l’immobilismo dell’attuale scenario siriano. Non credo però che possano lasciare le cose in questo modo, dovrebbero invece rafforzare quei gruppi dell’esercito siriano libero che credono in uno stato laico e democratico. Molti di costoro passano ai gruppi jihadisti, perché riceveranno un salario e saranno ben armati, indebolendo così i gruppi laici dell’Free Syrian Army che non è ben finanziato ne ben armato e non può pagare salari. Dovrebbero inoltre finanziare e rafforzare i consigli locali, dove si trovano gli uffici militari, gli uffici dei media, gli uffici politici che hanno rapporti con l’estero eccetera. Questi consigli locali sono importantissimi perché potranno gestire il territorio mentre lo stato è assente, sull’interazione tra questi consigli locali si potrà ricostruire una nuova rete di governi locali legittimi e alla fine ricostruire la nuova Siria. Perché è ormai chiaro che non riavremo uno stato siriano in pochi mesi. Sia che Bashar lasci o che rimanga, la Siria collasserà e diventerà come la Somalia. Oggi gli attivisti del movimento nonviolento siriano stanno portando avanti grandi campagne di consapevolezza, anche virtualmente su facebook, youtube o twitter. Mentre altri stanno rientrando in Siria dal nord e stanno contattando i gruppi armati con i quali dialogano coraggiosamente cercando di impedire nuovi massacri. Quando un gruppo vorrebbe uccidere tutti gli alawiti di un certo villaggio essi chiedono loro se sono veramente credenti … e questi risponderanno ma loro sono nemici che vogliono ucciderci … e allora gli verrà chiesto se uccideranno anche i bambini … ed essi risponderanno che uccideranno solo gli assassini … come riconoscerete gli assassini, avete bisogno di processarli, avete bisogno di un giudice, di un tribunale … allora andremo a cercare coloro che erano coinvolti e che conosciamo bene e li porteremo davanti ad un giudice … Procedono così, passo passo, cercando di convincerli e di far loro capire che non sono nemici. Perché spesso questi giovani combattenti pensano di essere stati lasciati soli e che tutti sono contro di loro, pensano di avere la loro arma e con quella di continuare a combattere da soli perché nessuno li sostiene. Hanno perso la fiducia verso l’altro. Ed è con loro che gli attivisti nonviolenti vanno a parlare, perché noi li amiamo e vogliamo capirli e amiamo la Siria e vogliamo ricostruire uno stato civile. Ma se invece parliamo con i jihadisti ci rispondono che loro hanno la loro fede e che noi siamo agenti Usa e così via. Sono giovani che provengono dalle zone rurali e sono convinti di essere combattenti che difendono l’Islam e la verità. Solo pochi di loro sono educati, parlano le lingue e hanno studiato, quelli guidano i gruppi. Esistono diversi gruppi e dobbiamo apprezzarli tutti, non dobbiamo fare di tutta l’erba un fascio, altrimenti ci combatteranno. Dobbiamo rimanere in contatto con loro, continuare a parlargli, far loro capire che stiamo dalla stessa parte, che non siamo nemici. Quando parliamo con i gruppi salafiti armati cerchiamo di spiegare che siamo contro le armi e contro la violenza, non contro di loro. Molti di loro pensano che in uno stato civile verrebbero arrestati e imprigionati per la loro militanza. Noi cerchiamo di far loro capire che in uno stato democratico le idee non sono perseguite che noi siamo disposti a difenderli, che ognuno sarà libero di agire e pensare liberamente ma che nessuno potrà portare le armi e nessuno potrà più essere forzato a fare qualcosa che non vuole. In uno stato libero ognuno potrà esprimere il proprio pensiero, stampare i propri libri e così via, ma solo in maniera pacifica questa è la grande differenza. Molti di loro rimangono sorpresi, … pensavamo che i laicisti fossero contro di noi e che volessero sopprimerci … ed è allora che iniziano a parlare ed è poi facile trovare argomenti e opinioni in comune. Anche coloro che sembrano ad un primo sguardo dei pericolosi terroristi, ascoltandoli e parlando con loro si scoprono molte cose in comune. Ci separa solo la paura dell’altro. Io credo che se rafforzeremo e diffonderemo questa campagna di dialogo, moltissimi giovani che vengono strumentalizzati da Al Qaida vorranno abbracciare di nuovo la pace e la vita civile. Se osservate con attenzione scoprirete che molti salafiti vivono in Europa e non negli stati arabi, perché possono andare in Hide Park a Londra e fare liberamente i loro discorsi, mentre negli stati arabi verrebbero arrestati. Questa testimonianza che abbiamo raccolto dalla viva voce di Ibrahim Al Assil, ci sembra possa aiutare a chiarire alcune realtà del conflitto siriano. Il futuro del conflitto si gioca nella capacità di ricostruire una società civile disponibile a riconoscere il diverso, specialmente nella Siria abitata da 17 diversi ceppi etnico religiosi, nessuno dei quali vorrà rinunciare alle proprie radici. Noi che ci riconosciamo nella nonviolenza dobbiamo quindi lavorare insieme per sostenere un movimento fratello che ci chiede aiuto e solidarietà. Ibrahim è fermamente convinto dell’importanza di rientrare in Siria e ci chiede di collaborare per costruire insieme progetti di riconciliazione. Carla e Maurizio
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