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21 giugno 2013

F-35 insicuri e anti-economici. Ma il Parlamento discute se acquistarne altri
di Enrico Piovesana

Un anno fa il governo Monti decise di ridurre da 131 a 90 il numero dei contestatissimi velivoli. Ora il ministro della Difesa Mauro dice che il "Parlamento è sovrano" e potrebbe ripristinare l'intero programma. Che non ci serve, è antieconomico e ci mette sotto "tutela" americana, visto che le "chiavi elettroniche" degli aerei resteranno in mano Usa

Alla vigilia del tanto atteso dibattito parlamentare sugli F-35, il ministro della Difesa Mario Mauro rilancia l’ipotesi di acquistarne addirittura 131 invece dei 90 decisi dal suo predecessore Di Paola, nella speranza di far passare come rinuncia la quota già decisa. Come quei venditori di tappeti che provano a fregarti alzando il prezzo per poi farti lo sconto così da vendere a prezzo pieno. Ma di quei costosissimi 90 tappeti volanti l’Italia non ha alcun bisogno. Vediamo perché, attenendoci ai fatti e considerando le possibili alternative.

Il mantra ossessivamente ripetuto dalla Difesa è che gli aerei da guerra in servizio sono ormai decrepiti e l’unico sostituto possibile è l’F-35. 

La nostra forza aerea attuale non solo basta e avanza a difendere lo spazio aereo nazionale (tanto che ci permettiamo addirittura il lusso di difendere pure i cieli di Albania, Slovenia e Islanda), ma consente anche di cimentarsi, in spregio all’articolo 11 della Costituzione, in campagne estere di bombardamento (basta pensare alla partecipazione della nostra aeronautica alla campagna di Libia del 2011, definita dal generale Bernardis “un contributo di prim’ordine, l’impegno più imponente dopo il secondo conflitto mondiale”). Queste invidiabili performance sono garantite da una flotta operativa ad oggi composta da 128 aerei da attacco (non 250 come continua a ripetere la Difesa) e 48 da difesa (i nuovissimi caccia Eurofighter Typhoon).

I velivoli da attacco che si vuol sostituire con gli F-35 sono tutt’altro che rottami da buttare: i 58 Tornado aggiornati negli ultimi anni sono perfettamente operativi almeno fino al 2025/2030, gli Harrier fino al 2027/2030 (lo dice il comando dei Marines americani, certo non poco esigente) e gli Amx, se ammodernati come quelli che Alenia ha venduto al Brasile, potrebbero rimanere in servizio addirittura fino al 2032. Ma soprattutto – questo è il vero scandalo della questione – gli Eurofighter possono facilmente essere modificati in chiave multiruolo, diventando quindi utilizzabili anche come aerei da attacco al pari degli F-35 (salvo per l’invisibilità ai radar, che secondo gli esperti è una caratteristica inutile vista l’evoluzione dei sistemi di rilevamento): lo stanno facendo i tedeschi, che così possono fare a meno degli F-35, e gli inglesi, che hanno usato gli Eurofighter per bombardare la Libia.

Scegliere di agganciarsi al programma di Berlino e puntare tutto sull’Eurofighter consentirebbe di risparmiare miliardi di euro. Come spiega in una recente intervista l’ex pilota ed ingegnere aeronautico di Alenia, Armando Armando, “avere una sola linea di velivoli da combattimento sarebbe un grandissimo risparmio nei costi di esercizio contro i costi esorbitanti che si avrebbero per mantenere la linea F-35. Il sistema Eurofighter ormai non ha più rischi tecnici e sarebbe garantita un’altissima efficienza di linea, contro il rischio di avere gli F-35 perennemente fermi per manutenzione, aggiornamento e incognite tecniche, oltre che per motivi di costi”. Un incremento di costi esorbitante e inevitabile a causa dell’assurdo sistema della ‘concurrency’ (consegna di velivoli non ancora testati), criticato l’anno scorso anche dall’allora capo del progetto americano F-35, il viceammiraglio David Venlet: “La concurrency ci costringe a consegnare questo nuovo jet con l’impegno di rimandarcelo indietro dopo un anno per apportare modifiche strutturali senza le quali l’aereo volerebbe solo per altri 3-5 anni”.

Ma soprattutto, l’alternativa Eurofighter – rara concretizzazione della tanto auspicata integrazione europea della difesa – rappresenterebbe una scelta politica di indipendenza nazionale ed europea rispetto agli Stati Uniti, quando invece con gli F-35, come più volte ricordato dall’esperto militare Gianandrea Gaiani, “saremo totalmente nelle mani di Washington perché acquisiremo sì alcune tecnologie, ma non l’hardware: il sistema computerizzato dell’aereo, il suo cuore elettronico, è accessibile esclusivamente agli statunitensi” e senza quello, semplicemente non funziona. Se quindi un giorno dovessimo usare questi aerei per operazioni sgradite agli Usa, a Washington basterebbe schiacciare un bottone per spegnere i nostri F-35. Concorda il già citato ingegner Armando, ex Alenia: “Il controllo delle informazioni tecnico-operative segrete, necessarie all’impiego del sistema d’arma e al controllo della logistica, rimarrebbero prerogativa degli Usa: appare evidente il rischio di un forte quanto inammissibile condizionamento delle nostre scelte politico-strategiche”.

E la Difesa italiana che fa? Decide di ridurre il numero di Eurofighter già ordinati e in servizio per far spazio al cacciabombardiere americano. Nel luglio 2010 l’allora ministro Ignazio La Russa cancellò l’ordine dell’ultima tranche di velivoli riducendo il programma Eurofighter da 121 a 96 aerei, dicendo che così si sarebbero risparmiati due miliardi. Ora la Difesa annuncia un’ulteriore riduzione a 72 caccia, derivante dal progetto di svendita – ancora non concretizzato – di 24 aerei già acquistati, che si vuole cedere alla Romania o ad altri nuovi membri Nato con la scusa che sono vecchi: stiamo parlando di aerei nuovissimi, entrati in servizio nel 2004. Conseguentemente, l’Italia decide di chiamarsi fuori dai progetti di sviluppo dell’Eurofighter Typhoon, una scelta criticata anche dagli esperi militari della rivista specializzata americana Defense News: “Nazioni come l’Italia hanno optato per l’F-35 come aereo da attacco, indebolendo i progetti per lo sviluppo di un Typhoon multiruolo”. 

Progetti, questi sì, che favorirebbero lo sviluppo tecnologico dell’industria italiana in quanto partner del consorzio Eurofighter e non semplice sub-fornitrice come lo è nel programma F-35, dal quale le nostre aziende non trarranno alcun beneficio in termini di ricaduta tecnologica: l’assemblaggio e la manutenzione che verranno svolte a Cameri, ha dichiarato ad Analisi Difesa l’ingegner Cesare Gianni, ex direttore responsabile dei velivoli militari di Alenia, sono “attività di mera esecuzione di processi e specifiche predeterminate, senza conferimento di valore aggiunto e senza la possibilità di ricavarne alcun vero know how, del resto fortemente protetto. Che la scelta F-35 favorisca l’industria italiana, per la quale il caccia americano rappresenterebbe un’occasione irrinunciabile, è un’affermazione che non si può assolutamente accettare e che va contestata con determinazione” poiché, al contrario, questa scelta avrà “conseguenze penalizzanti per l’industria”.

Falsa anche la propaganda sui ricavi economici e le ricadute occupazionali. “L’Italia spende 11,8 miliardi di euro e ne ricaverà 15 miliardi, quindi ci guadagniamo 3,2 miliardi”, sentenziava giorni fa il ministro della Difesa con assoluta certezza. Peccato che secondo le stime fatte dagli stessi vertici di Finmeccanica – sempre molto ottimistiche e del tutto ipotetiche – il ricavo non supererà i 10 miliardi da qui fino al 2050, periodo nel quale gli F-35 ci saranno costati in tutto almeno cinque volte tanto. Un affare.

Poi c’è il mito, di berlusconiana memoria, dei “diecimila posti di lavoro” che secondo la Difesa gli F-35 creerebbero nello stabilimento di Cameri e nelle piccole e medie aziende dell’indotto. Secondo le ultime previsioni di Finmeccanica, gli addetti di Cameri saranno al massimo 2.500: tutte risorse interne in esubero per il tagli al programma Eurofighter che verranno ricollocati sul nuovo progetto, non nuovi posti di lavoro (quelli, per ora, saranno solo ottanta); inverosimile immaginare che altri 7.500 posti verranno garantiti dalle quaranta aziende dell’indotto (oggi tutte sotto i 120 dipendenti) a botte di quasi 200 assunzioni per azienda. Più realistica l’ipotesi dei sindacati consultati dalla Rete Disarmo, che prevedono una media di 200 occupati a Cameri (con picchi di 600 nelle fasi di produzione intensa) più altri 800 nell’indotto. 

Alla luce dell’incertezza sulle prospettive occupazionali del programma F-35, risulta ancor più incomprensibile la decisione di uscire dal programma Eurofighter con la certezza di perdere migliaia di posti di lavoro, know how industriale e indipendenza politica. E per cosa? Per dotarsi di un aereo come l’F-35 che di cui lo stesso Pentagono in un recente rapporto denuncia gli incorreggibili difetti strutturali che ne fanno un aereo nato male e nato vecchio, inferiore non solo ai suoi futuri equivalenti stranieri, ma a tutti i caccia già oggi in servizio. “Proprio ieri il Gao (la Corte dei conti statunitense, ndr) in audizione di fronte al Senato americano ha definito il programma F-35 un metodo ‘rotto’ che comporta ritardi e risultati già obsoleti al momento della realizzazione” commenta Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo. “Questo ci preoccupa molto in quanto contribuenti”.

“Ma a parte i costi e i problemi – conclude Vignarca – la vera domanda da porsi è: a cosa ci serviranno gli F-35? Perché la Difesa li ritiene così indispensabili? In base a quali prospettive? Sarebbe necessaria una ridiscussione globale del ‘modello di Difesa’ di questo paese, anche con alternative non armate, prima di poter certificare con assoluta sicurezza cosa sia realmente indispensabile per la vita degli italiani”.

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