fonte: www.sbilanciamoci.info.
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18 aprile 2013
Sipri: la crisi non ferma la spesa per armi
di Giulio Marcon
1.753 miliardi di dollari è la spesa militare 2012 nel mondo, secondo i dati del Rapporto Sipri. Poco meno di metà è realizzata dagli Usa (682 miliardi), l’Italia dovrebbe ridurre subito i suoi 26 miliardi di spesa
Il recente rapporto annuale del Sipri il prestigioso istituto di ricerca svedese sul disarmo sulla spesa militare mondiale ci consegna un quadro sconfortante: nel 2012 si sono spesi nel mondo 1753 miliardi di dollari per le armi. Nello stesso tempo spendiamo a livello globale circa 60 miliardi per la cooperazione allo sviluppo e la lotta alla fame nel mondo (cioè il 3,4% di quanto si spende per le armi) e circa 12 miliardi per la lotta all’Aids (l’equivalente di 3 giorni di spesa militare). Abbiamo costretto un paese come la Grecia a impoverirsi drammaticamente per sanare il suo debito pubblico in ossequio ai diktat europei (mettendo a rischio anche l’euro e la stabilità economica europea) quando con solo il 10% della spesa militare mondiale si sarebbe potuto stabilizzare la situazione finanziaria di quel paese ed evitare la povertà a milioni di persone.
La crisi avanza, ma la spesa militare non si ferma. Non solo negli Stati Uniti (oltre 682 miliardi) o in Cina (+175% negli ultimi 10 anni), ma anche in Italia: spendiamo ogni giorno 70 milioni per le armi e oltre 26 miliardi ogni anno. E rischiamo di spenderne ancora di più con la legge delega sulla difesa, i cui decreti attuativi (già pronti, ma non ancora resi noti) scritti dal ministro-ammiraglio Di Paola diminuiranno la spesa per il personale, ma aumenteranno pesantemente gli stanziamenti per i sistemi d’arma e gli investimenti. L’altro ieri il Ministro Grilli in audizione alla Camera alla sollecitazione di molti deputati che chiedevano stanziamenti per la cassa integrazione in deroga non ha preso alcun impegno e ha invitato il Parlamento a trovare i soldi. Basta leggere il rapporto del Sipri e i bilanci delle spese militari italiani per sapere dove questi soldi si possono trovare. Con 20 giorni di spesa militare italiana o rinunciando a costruire 10 cacciabombardieri F35 avremmo subito le risorse per rifinanziare la cassa integrazione.
In un momento di crisi così grave bisogna intervenire subito per ridurre la spesa militare, cambiare il modello di difesa e porre fine all’interventismo militare. Nei giorni scorsi Sel ha presentato una mozione parlamentare per lo stop agli F35 e il M5S per il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan. Si tratta di costruire da subito una mobilitazione unitaria nella società e nel parlamento per porre tre temi fondamentali: quello di una politica estera di pace, quello di una riconversione civile dell’economia militare e quello di una revisione del modello di difesa contrastando l’ispirazione ed i contenuti della legge delega di Di Paola. Bisogna ridurre di almeno un terzo gli organici delle Forze Armate, azzerare l’acquisizione e la produzione dei cacciabombardieri F35, ritirare i nostri soldati da tutte le missioni militari di guerra a favore di un modello di difesa radicalmente nuovo sufficiente ispirato ai valori costituzionali del ripudio della guerra e del contributo del paese alla costruzione della pace.
È immorale costruire cacciabombardieri e lasciare senza indennità i cassintegrati o spendere 70 milioni al giorno per le Forze Armate e lasciare 140 scuole in zona sismica a rischio di crollo quando con l’equivalente di quel giorno di spesa militare potrebbero essere rimesse a posto. E sarà pure una spesa modesta (sempre di qualche milione di euro si tratta), ma rifare tra un mese e mezzo la parata militare del 2 giugno sarebbe una scelta sbagliata e inopportuna. La nostra Repubblica (primo articolo della Costituzione) è fondata sul lavoro. In un momento in cui l’assenza di lavoro è il dramma di questi mesi, celebrare la festa del 2 giugno (spendendo un po’ di soldi) con i carri armati e le frecce tricolori non è accettabile. Non è il momento dei trionfalismi patriottardi, ma di occuparsi dei lavoratori, dei disoccupati, dei precari.