Originale: Social Europe La Primavera Araba tre anni dopo Tre anni dopo l’inizio delle rivoluzioni arabe la regione ha assistito a un caleidoscopio di sviluppi drammatici che spaziano dalle libere elezioni alla repressione violenta del cambiamento. Come descriveresti oggi la Primavera Araba? In passato l’ho descritta come un “lavoro in corso”. Oggi, sfortunatamente, sarebbe più appropriata l’espressione “lavoro in regresso”. Le dittature petrolifere sono state in grado di reprimere la maggior parte di tentativi diretti a riforme anche modeste, la Siria sta precipitando nel suicidio e in una probabile partizione, lo Yemen è sottoposto alla campagna terroristica globale dei droni di Obama, la Tunisia è in una specie di limbo, la Libia è priva di un governo in grado di controllare le milizie e in Egitto, il più grande paese del mondo arabo, l’esercito ha agito con brutalità estrema e con un sostegno popolare che, secondo me, non dovrebbe avere in quello che sembra un tentativo di ripristinare il suo duro controllo politico e di conservare il suo impero economico, cancellando contemporaneamente alcune delle conquiste più significative del periodo precedente, come la libertà e l’indipendenza della stampa. I segnali non appaiono buoni. In aggiunta, il conflitto tra sciiti e sunniti istigato dall’aggressione statunitense-britannica dell’Iraq sta facendo a brandelli il paese e diffondendosi sinistramente nell’intera regione. Ci sono due parti del mondo arabo che restano effettivamente delle colonie: il Sahara occidentale, dove le dimostrazioni per la democrazia della fine del 2010 sono state duramente represse e la lotta del popolo Sahraui per la libertà è stata pressoché dimenticata, e ovviamente la Palestina, dove sono in corso negoziati conformi alle due essenziali precondizioni israelo-statunitensi: che non ci siano ostacoli all’espansione degli insediamenti illegali e che i negoziati siano condotti dagli Stati Uniti, che sono una parte nel conflitto (schierati con Israele) e che hanno continuato a bloccare, con rare e temporanee eccezioni, il prevalente consenso internazionale per una soluzione diplomatica sin dal 1976, quando hanno posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che ne prevedeva i termini fondamentali. Nell’ambito di tali precondizioni, i negoziati saranno probabilmente poco più che una copertura per Israele nel portare avanti i suoi programmi di integrazione in Israele di ciò che considera di valore nella West Bank, tra cui pochi arabi, in modo da evitare il “problema demografico”, con continuo sostegno degli Stati Uniti, e nel separare la West Bank da Gaza in violazione degli Accordi di Oslo, mantenendo allo stesso tempo il suo assedio brutale. Non un bel momento, ma le scintille suscitate dalla Primavera Araba probabilmente si trasformeranno nuovamente in un incendio. Le speranze iniziali di una traiettoria lineare verso l’emancipazione e la democrazia sono svanite da molto. L’euforia era stata mal collocata? Dove e quando le cose sono andate storte? Non avrebbero mai dovuto esserci speranze di una traiettoria lineare. La Primavera Araba è stata uno sviluppo di importanza storica, che ha minacciato molti interessi potenti. Il potere non dice “grazie per il mio smantellamento” per poi sparire tranquillamente. Le reazioni occidentali hanno spaziato dall’intervento militare a un approccio passivo, come quello visto negli stati del Golfo. Vedi un disegno sottostante? Il disegno sottostante è familiare: sostegno al dittatore preferito quanto più a lungo possibile. Se diventa impossibile perché l’esercito o la classe imprenditoriale gli si rivolta contro, o per qualche altro motivo, allora lo si manda via da qualche parte, si diffondono reboanti dichiarazione a proposito del nostro amore per la democrazia e si cerca di ripristinare il vecchio ordine quanto più appieno possibile. Succede in continuazione. Per citare solo alcuni: Somoza, Marcos, Duvalier, Suharto, Mobutu … E’ una politica naturale per una potenza imperiale; dunque è del tutto familiare. E’ anche naturale perché il contesto sia ignorato o cancellato. Il compito della comunità intellettuale consiste nel sostenere e giustificare il potere, non nel minarlo, anche se alcuni infrangono le regole. Una delle molte linee di frattura nella regione sembra essere lo scontro tra forze laiche e religiose. Vedi un modo in cui questa dicotomia possa essere affrontata costruttivamente? Quale ruolo dovrebbero svolgere i governi occidentali? Né la storia, né la logica, né l’analisi politica, né qualsiasi altra fonte eccettuata la propaganda ci offre una qualsiasi ragione per attenderci che i sistemi politici svoltano un ruolo costruttivo, a meno che non capiti essere loro interesse. Vale per i sistemi occidentali come caso speciale. Nella regione MENA [Medio Oriente e Nord Africa n.d.t.] le maggiori potenze Gran Bretagna e poi Stati Uniti hanno alquanto costantemente appoggiato l’Islam radicale in funzione di contrasto al nazionalismo laico. La favorita è stata l’Arabia Saudita, lo stato islamico più estremamente radicale e uno stato missionario, che diffonde le sue dottrine wahabite-salafite in tutta la regione. Ci sono studi accademici eccellenti e scrupolosi della “promozione della democrazia” da parte degli Stati Uniti redatti dai loro più eminenti sostenitori che ammettono, con riluttanza, che il governo appoggia la democrazia se, e solo se, essa è conforme a interessi economici e strategici, proprio come si aspetterebbe ogni persona razionale. Quale ruolo dovrebbero svolgere? E’ facile. Dovrebbero sostenere la libertà, la giustizia, i diritti umani, la Democrazia. Possiamo dire la stessa cosa di Russia e Cina. In una certa misura forze popolari organizzate potrebbero forzare i governi in tale direzione, ma oggi ci sono scarsi segni di ciò, per molti motivi. Su un altro livello, le tensioni tra correnti religiose sembrano essere in aumento. Già nel 2004 il re Abdullah di Giordania aveva parlato di una “Mezzaluna Sciita”. Questa idea di una guerra sunnita-sciita per procura è la lente giusta per capire gli attuali conflitti nella regione? Una delle sinistre conseguenze dell’aggressione statunitense-britannica all’Iraq è stata l’aver scatenato conflitti tra sunniti e sciiti che in precedenza si erano smorzati, portando a una storia dell’orrore che sta facendo a pezzi l’Iraq e si è diffusa in tutta la regione con effetti terribili e minacciosi. E l’onestà dovrebbe spingerci a ricordare il giudizio di Norimberga, uno dei fondamenti della moderna legge internazionale. Fu stabilito che l’aggressione era “il crimine internazionale supremo, diverso da altri crimini di guerra in quanto incorpora il male accumulato nell’intera guerra”; in questo caso, comprendendo tra molti altri crimini anche i conflitti settari. L’onestà dovrebbe spingerci anche a ricordare l’ingiunzione che il giudice Robert Jackson formulò al tribunale: “Stiamo porgendo a questi imputati un “calice avvelenato” e se commetteremo crimini simili dovremo subire le stesse conseguenze, altri questo tribunale è una farsa, semplicemente la giustizia del vincitore.” Una misura del divario tra la cultura morale-intellettuale occidentale e la civiltà è l’attenzione che è stata prestata a queste parole. Questa intervista è stata pubblicata inizialmente in tedesco sull’IPG-Journal. Le domande sono state poste da Michael Broening. Da Z Net Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Fonte: http://www.zcommunications.org/the-arab-spring-three-years-on-by-noam-chomsky.html
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