Paul Krugman, “La guerra e le politiche economiche dominanti”, dal “NewYork Times” del 22 marzo 2013; intervento ripreso da “Micromega” http://www.libreidee.org Krugman: ieri le armi di Saddam, oggi la fobia del debito Dieci anni fa l’America invase l’Iraq: in qualche modo la nostra classe politica decise che dovevamo rispondere a un attacco terroristico con la guerra a un regime che, per quanto spregevole, non aveva nulla a che fare con l’attacco. Alcune voci avvertirono che stavamo facendo un terribile errore che i motivi per fare la guerra erano deboli e forse fraudolenti, e che era molto probabile che l’impresa, lungi dal darci la facile vittoria promessa, avrebbe probabilmente portato a costi e lutti molto pesanti. E questi avvertimenti si sono rivelati, ovviamente, fondati. Si è scoperto che non c’era alcuna arma di distruzione di massa; è ovvio, a posteriori, che l’amministrazione Bush ha deliberatamente ingannato, e portato in guerra, la nazione. E la guerra che è costata migliaia di morti americani e decine di migliaia di vite irachene, e ha imposto costi finanziari di gran lunga superiori a quelli previsti dai suoi sostenitori ha lasciato l’America più debole, non più forte, e ha finito per creare un regime iracheno più vicino a Teheran che a Washington. La nostra élite politica ed i nostri mezzi di informazione hanno imparato qualcosa da questa esperienza? Non pare proprio. Ciò che veramente colpiva, durante il periodo che ha preceduto la guerra, era l’illusione del consenso. Ancora oggi gli esperti che hanno fatto valutazioni sbagliate attribuiscono il loro errore al fatto che “tutti” pensavano che ci fossero validi motivi per la guerra. Naturalmente, ammettono, c’era anche chi si opponeva alla guerra ma erano persone che non contavano, perché erano fuori dalla linea di pensiero predominante. Il problema di questa argomentazione è che è stata ed è circolare: sostenere la guerra diviene parte della definizione di ciò che si intende come linea predominante. Chi dissente, non importa quanto qualificato, viene ipso facto etichettato come indegno di considerazione. Questo era vero negli ambienti politici, ma era altrettanto vero per gran parte della stampa, che di fatto si schierò col partito della guerra. Howard Kurtz, della “Cnn”, che era al “Washington Post”, ha scritto di recente su come funzionava questo meccanismo, su come segnalazioni scettiche, per quanto fondate, venivano scoraggiate e respinte. «Gli articoli che mettevano in discussione le prove o le ragioni per la guerra», ha scritto, «sono stati spesso sepolti, minimizzati o bloccati». Strettamente connesso a questa presa di posizione a favore della guerra ci fu un rispetto esagerato e ingiustificato per l’autorità. Solo le persone in posizioni di potere erano considerate degne di rispetto. Kurtz ci dice, ad esempio, che il “Post” cancellò un pezzo sui dubbi sulla guerra, scritto dal proprio capo settore per la difesa, per il fatto che si basava su dichiarazioni di militari in pensione e di esperti esterni «in altre parole, di coloro che hanno sufficiente indipendenza per poter mettere in discussione i motivi per la guerra». Tutto sommato, è stata una lezione pratica sui pericoli del pensiero di gruppo, una dimostrazione di quanto sia importante ascoltare le voci scettiche e tener distinta la ricerca dei fatti dalla linea editoriale. Purtroppo, come ho detto prima, è una lezione che non sembra essere stata davvero imparata. Si consideri, come prova, l’ossessione per il deficit del bilancio statale che ha dominato la scena politica negli ultimi tre anni. Ora, io non voglio spingere quest’analogia troppo in là. Una cattiva politica economica non è l’equivalente morale di una guerra combattuta sulla base di falsi pretesti, e anche se le previsioni dei falchi del deficit si sono ripetutamente rivelate sbagliate, non c’è stato uno sviluppo decisivo o sconvolgente come il completo fallimento nel trovare le armi di distruzione di massa che si erano ipotizzate. Inoltre, e ciò è ancora più importante, oggi chi dissente non è circondato da quell’atmosfera di minaccia, quella sensazione che il dubitare potrebbe avere conseguenze devastanti sulla propria carriera, che era così pervasivo nel 2002 e 2003 (ricordate la campagna di odio contro il gruppo di musica country Dixie Chicks organizzata nel 2003 dalla Casa Bianca di Bush?). Ma oggi come allora abbiamo l’illusione del consenso, un’illusione basata su un meccanismo per cui chiunque metta in discussione l’opinione ufficiale è immediatamente emarginato, non importa quanto solide siano le sue argomentazioni. E oggi come allora la stampa sembra spesso schierata. Colpisce in modo particolarmente evidente quanto spesso asserzioni discutibili siano riportate come dati di fatto. Quante volte, per esempio, avete visto articoli che affermano, come cosa scontata, che gli Stati Uniti si trovano di fronte a una “crisi del debito”, anche se molti economisti direbbero che ciò non è affatto vero? In realtà, il confine tra notizia e opinione è per certi versi ancora più confuso in materia fiscale di quanto non lo fosse quando si andava verso la guerra. Come Ezra Klein, del “Post”, ha osservato il mese scorso, sembra che «le regole della neutralità dell’informazione sui fatti non si applichino quando si tratta di deficit». Quello che dovremmo aver imparato dal nostro fallimento in Iraq è che si dovrebbe sempre essere scettici e che non bisognerebbe mai fare affidamento su presunte autorità. Quando si sente dire che “tutti” sostengono una certa politica, che si tratti di una guerra che si sceglie di fare o di austerità fiscale, ci si dovrebbe chiedere se “tutti” non significhi “tutti, tranne chi ha un parere diverso”. E gli argomenti di politica dovrebbero sempre essere valutati nel merito, non sulla base dell’autorità di chi li esprime; ricordate quando Colin Powell ci ha rassicurato sull’esistenza delle armi di distruzione di massa irachene? Purtroppo, come ho detto, non sembra che abbiamo imparato la lezione. Ci riusciremo mai?
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