http://www.ossin.org
L’islam politico è solubile nella democrazia?
Questo breve articolo, che è solo complementare rispetto a scritti più approfonditi dell’autore, non vuole essere né provocatore, né polemico. Intendo solo mettere i puntini sulle “i”. Ricordo quindi con brevi parole ciò che ho già scritto e ripetuto: io non discuto della possibilità teorica di “un islam politico moderno che sia democratico”, ma dei partiti che di fatto esistono e che si dicono islamisti. Non discuto nemmeno dell’islam come religione. Ho spesso scritto in arabo, in francese e in inglese, e con precisione, su cosa intendo per “islam politico reazionario”, riassumibile nella perifrasi che di tanto in tanto ricordo: “movimento sedicente islamico e di fatto politico reazionario e antidemocratico”. Preciso ancora che oggetto della discussione non deve essere la qualificazione “islamista” che questi movimenti si attribuiscono. Per esempio io non ho mai criticato il presidente Morsi perché è, o si dichiara, islamico o Fratello Mussulmano. Io esamino la politica economica e sociale che egli realizza. Ed è una politica che accetta senza la minima esitazione il liberalismo economico, la libertà sregolata dei mercati, ivi compreso quello del lavoro, con tutti i relativi effetti sociali catastrofici. Poco importa che egli “legittimi” questa politica considerandola conforme ai principi fondamentali dell’islam così come egli li intende (“L’islam rispetta la proprietà privata”, ecc). Questa è solo una delle possibili interpretazioni dell’islam. Ve ne sono altre ugualmente possibili e che conducono a conclusioni differenti. Io stesso ho contribuito a far conoscere per esempio Mahmoud Taha, teologo (in arabo, fiqh) mussulmano della liberazione, condannato da tutti i movimenti che si rifanno all’islam e del quale ho scritto la prefazione alla traduzione francese del suo libro più importante. Ma la conformità di questa o quella politica ai principi dell’islam non è il mio problema. Io non entro nella disputa: questo partito che si proclama islamico lo è o non lo è? Io voglio costringere i difensori di questo o quel partito “islamico” a discutere delle concrete politiche messe in campo, non della loro legittimazione islamica o altro. Perché identiche politiche sono praticate anche da partiti che si proclamano laici, perfino da partiti “antireligiosi”. E sono tutte allo stesso modo reazionarie. Sul piano della questione democratica, il partiti politici che critico, si autoproclamino islamici o meno, sono quelli che non rispettano le libertà democratiche necessarie perché possano esprimersi liberamente i movimenti popolari di protesta e di lotta contro le politiche reazionarie. E’ il caso per esempio dei Fratelli Mussulmani. Io li definisco quindi “antidemocratici”. Su tutti questi punti io mi sono pronunciato molto dettagliatamente, per esempio nel mio libro in arabo “Thawra Misr” (La rivoluzione egiziana) o nell’articolo “Rasmalia al mahassib” (Il capitalismo di connivenza). Sono “partiti” o “movimenti” autoproclamatisi “islamisti”? Non sempre. In certi casi sono solo gruppi armati che si definiscono come vogliono (per esempio “jihadisti”) e si arrogano il diritto, in nome di una interpretazione della religione che è solo loro, di conquistare dei territori per imporvi la loro legge. In simili casi diventa difficile distinguere tra i diversi motivi che li animano: fede religiosa o saccheggio, o organizzazione di traffici vari? “Gruppi armati religiosi”, o signori della guerra, o mafie? Il nord del Mali ne è un esempio: il territorio è stato conquistato da gruppi armati, non da un “movimento popolare”. Questi partiti posso essere definiti “fascisti”? Nel Maghreb, in virtù di una migliore conoscenza della cultura politica francese, questo aggettivo viene spesso utilizzato, probabilmente qui in modo efficace. Peraltro in questi paesi, in virtù della familiarità col francese e con la Francia, ci si concentra talvolta sul dibattito francese che, prendendo in parola l’auto-qualificazione di “islamico” da parte dei movimenti in questione, ne deduce che “questo sia l’islam”. Ma non è questo il mio problema. In Egitto, in Mashreq e nell’Africa subsahariana, io dubito che l’espressione “fascista” possa venire meglio compresa della mia perifrasi (“Partito politico auto-proclamatosi islamico, di fatto reazionario e anti-democratico”). I Paesi del Golfo sono “fascisti”? Non lo credo. Sono arcaici e “schiavisti”, laddove privano i lavoratori (qui al 90% immigrati) di tutti i diritti, anche i più elementari. Ma tentano di contrabbandare la loro interpretazione dell’islam (wahabita) come l’unica corretta. I Fratelli Mussulmani in Egitto sono “fascisti”? Oltre al fatto che questa espressione non dice molto alla gente comune, non mi sembra nemmeno che esprima più della mia perifrasi. Il popolo egiziano definisce il sistema come “rasmalia al mahassib” (In inglese “crony capitalism””; in francese “capitalisme des petits copains” se si vuole in italiano si potrebbe dire “capitalismo degli amichetti”, ndt). Questa definizione mi sembra molto pregnante, è quella che ho ripreso. Vi saranno sempre degli incorreggibili che non vorranno misurarsi con la questione delle concrete politiche messe in campo o promesse e si accontenteranno dello slogan “l’islam (o dio) risolverà il problema, ovviamente nel modo migliore”. Si può anche immaginare che alcuni leader siano sufficientemente cinici da sapere che per essi questo è il modo di evitare ogni discussione e di dover dire quello che fanno o vorrebbero fare, perché le masse che li seguono non lo accetterebbero. Ma ci sono anche persone convinte che sia sufficiente affidare il potere a quelli che si professano islamici (o di qualsiasi altra religione o ideologia) perché i loro problemi siano risolti, senza pretendere che siano più precisi. Questo atteggiamento non è esclusivo degli “islamisti”. I liberisti non sono spesso meno fondamentalisti e dommatici. I dirigenti del FMI per esempio proclamano apertamente che “il mercato risolverà tutti i problemi”. Proprio per questo motivo io li definisco i “salafisti del capitalismo contemporaneo”. Anche in questo caso, alcuni possono essere sospettati di cinismo: essi sanno bene quali interessi servono, ma non vogliono rivelarlo e si nascondono dietro l’affermazione dommatica delle virtù assolute del mercato. Altri sono forse ingenui o dei pierini, soprattutto quegli universitari che ripetono i dogmi che hanno loro insegnato e in cui credono sinceramente. Cosa altro fare se non ripetere instancabilmente che questi dogmi sono vuoti e dimostrarlo instancabilmente disvelando la realtà delle politiche praticate da questi dommatici e sulle conseguenze disastrose per le loro vittime? Quelli che sono interessati alla teologia (il fiqh nell’islam) hanno tutto il diritto di approfondire le loro riflessioni in questo campo. Ma allo stesso modo gli altri hanno il diritto di non occuparsi di questioni religiose, senza per questo che il loro atteggiamento debba essere considerato di disprezzo verso la fede religiosa. Le persone convinte dell’importanza del dibattito teologico non hanno il diritto di screditare il dibattito “laico” sulle politiche concrete messe in campo dagli uni e dagli altri, ivi compresi i movimenti di ispirazione religiosa, o che fanno riferimento ad altre filosofie, di qualsiasi tipo. L’islam politico è solubile nella democrazia? I fautori di questa tesi non mancano e servono da alibi ai poteri dominanti dell’establishment di Washington e dei suoi alleati europei, che ad ogni costo devono far credere che il rispetto delle “vittorie elettorali” dei partiti che fanno riferimento all’islam politico “moderno” (come in Egitto o in Tunisia) potrebbe aprire la strada al progresso della democrazia in questi paesi. Ahimè, questa posizione è condivisa anche da alcune rispettabili tribune critiche. La questione da porsi è duplice: (i) qual è il progetto di questo islam politico, di questo, non di un altro immaginario; (ii) in che modo questo progetto è perfettamente strumentale agli obiettivi dell’imperialismo dominante. 1. La teocrazia non è solubile nella democrazia Il progetto dei Fratelli Mussulmani in Egitto e della Nahda in Tunisia è un progetto teocratico che non è per nulla diverso da quello al potere in Iran (per quanto l’uno sia sciita e l’altro sunnita). Si tratta di erigere il potere religioso in potere antecedente e superiore rispetto a quelli dello stato moderno il legislativo (attribuito a un Parlamento di eletti), l’esecutivo (Presidente eletto) e il giudiziario. Il Consiglio degli Ayatollah in Iran, il Consiglio degli Ulema nella costituzione dei Fratelli mussulmani in Egitto sono investiti delle funzioni di una sorta di Consiglio Costituzionale religioso e di Corte Suprema che vigila sulla conformità all’islam (di fatto all’interpretazione che ne dà il Consiglio) delle leggi del Parlamento, degli atti di governo, delle decisioni giudiziarie. Il sistema è dunque l’equivalente di quello di un partito unico, sedicente “religioso”, al massimo tollerante verso qualche distinguo presente nel suo ambito. Perché nessun partito sarebbe legittimato in questo quadro a non riconoscere la supremazia del diritto religioso. Non si vede perché questo sistema, che i media definiscono anti-democratico in Iran, sarebbe miracolosamente diventato democratico in Egitto, in Tunisia e domani in Siria. Questo islam politico che è ferocemente reazionario in tutti i campi non è solubile nella democrazia . Ho già detto e non faccio qui che ripeterlo che l’islam in sé non ha niente a che vedere con questa vicenda tutta politica. Un’altra lettura dell’islam, possibile, sarebbe perfettamente compatibile con la democrazia. Ho fatto l’esempio del solo caso rintracciabile nei tempi moderni, quello del Sudanese Mahmoud Taha. Ma l’islam, così come lo intendono i Fratelli Mussulmani, non è di questa natura. Punto. La condanna a morte di Taha, da essi approvata bell’esempio di tolleranza ne è una prova. Anche la questione del velo imposto alle donne deve essere inquadrato in questo progetto teocratico. Non è solo questione di confermare lo statuto di inferiorità delle donne (la loro testimonianza in Tribunale non ha lo stesso valore di quella di un uomo), si tratta di imporre questo statuto di inferiorità in nome del potere superiore e indiscutibile della religione (interpretata in questo modo, che non è quella di Taha, per esempio), posta al di sopra di ogni altro potere, politico e civile. 2. Perché allora le potenze occidentali appoggiano questi regimi sedicenti islamici e anti-democratici per natura? La risposta è semplice ed evidente: questi regimi imprigionano le società che sono loro vittime in una totale impotenza di fronte alle sfide del mondo contemporaneo. Essi accettano la subordinazione a tutte le esigenze del “liberalismo” economico mondializzato. Questi paesi garantiscono che i paesi in questione non riusciranno a elevarsi al rango di paesi emergenti, concorrenti eventualmente scomodi delle metropoli imperialiste occidentali. E è questo che conta per le potenze dominanti. Questa subordinazione cancella ogni prospettiva di democratizzazione e di progresso sociale. Le potenti forze in azione in Egitto e in Tunisia che si battono contro il potere esercitato dai Fratelli Mussulmani lo hanno capito bene. Non altrettanto i media occidentali, sembra, che definiscono questi movimenti di “opposizione minoritaria” come se l’apparente vittorie elettorale degli islamisti fosse l’esclusivo parametro per individuare l’opinione maggioritaria. Voglio solo ricordare qui quello che si finge di ignorare i dubbi mezzi adoperati per garantire la “vittoria elettorale” degli islamisti come si vuole anche ignorare che molti ingenui elettori hanno cambiato opinione quando hanno visto all’opera quelli che avevano eletto. Si finge di ignorare che un autentico parametro democratico è quello del rispetto per le iniziative di un movimento che permette alla “minoranza” di spingere la “maggioranza” nella prospettiva di conquiste democratiche associate al progresso sociale. L’assassinio di Chokri Belaid illustra la natura della strategia messa in opera da questi partiti detti “islamisti”, fondata su una divisione del lavoro tra i partiti di governo che si auto-proclamano “democratici” e i Salafisti che respingono questa qualificazione, considerata “occidentale”. I giovani disoccupati e i delinquenti reclutati dai Fratelli Mussulmani e la Nahda, organizzati in gruppi che si definiscono “difensori della rivoluzione” (sul modello dei pasdaran in Iran), sono incaricati del lavoro sporco, che i leader dei partiti “onorabili” fingono di denunciare di tanto in tanto. La cosa è del tutto evidente, ma i nostri teorici dell’islam politico “solubile nella democrazia” non la vedono. Occorre anche ricordare che nessuno dei governi che si rifanno a questo islam politico ha denunciato salvo in qualche caso eccezionale, e a fior di labbra le gesta degli jihadisti armati (Talebani, Ceceni, Kosovari, Algerini del GIA, Libici, Siriani, AQMI e altri), né le loro atrocità, né il loro traffici mafiosi, né i loro sequestri di ostaggi. E non hanno mai sollevato la questione: questi gruppi hanno il diritto di definirsi islamici? Articolo di Samir Amin messo in rete da M’PEP con l’autorizzazione dell’autore. Economista franco-egiziano, Samir Amin è direttore del Foro del Terzo Mondo.
|