Originale: Solidarity L’Impero in Declino Gilbert Achcar è docente alla Scuola di Studi Orientali e Africani dell’Università di Londra. Il suo libro più recente è ‘The Arabs and the Holocaust. The Arab-Israeli War of Narratives’ (New York: Metropolitan, 2010) [Gli arabi e l’Olocausto. La guerra arabo-israeliana delle narrazioni]. Il suo prossimo libro ‘The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising’ [Il volere del popolo: un’indagine radicale della Rivolta Araba] è previsto in uscita nel giugno 2013 (Los Angeles: University of California Press). E’ stato intervistato da David Finkel del comitato redazionale di Against the Current [Controcorrente]. Against the Current: Dalla tua prospettiva privilegiata sia in Europa sia in Medio Oriente, puoi descrivere come sono state viste all’estero le elezioni statunitensi? Gilbert Achcar: Come puoi immaginare, le reazioni sono state diverse in Europa e in Medio Oriente. In Europa c’è stato una specie di sospiro di sollievo alla rielezione di Obama. Poiché Romney era visto in luce molto negativa dalla maggiore parte della gente, il commento più comune è stato di soddisfazione per il fatto che non fosse stato eletto. In Medio Oriente c’è stata maggiore indifferenza questa volta, diversamente dal 2008 quando ci fu così tanto entusiasmo per Obama, per l’evidente ragione del suo colore e dei suoi precedenti rispetto alla tradizione dei presidenti statunitensi. Ciò ha ceduto alla constatazione che Obama, al meglio, era molto debole in rapporto alla dirigenza politica statunitense e specialmente a quella israeliana nel modo in cui la sua amministrazione si inchinava all’arroganza e alle provocazioni israeliane. Ciò ha causato una grande delusione perché la gente si era illusa che le cose sarebbero andate diversamente. In generale, questa amministrazione ha anche effettivamente dovuto amministrare l’impero in un periodo in cui è al suo più basso livello di prestigio nella regione. E’ venuta dopo la disastrosa amministrazione di George W. Bush, disastrosa dal punto di vista dell’impero statunitense. Lo scrittore neoconservatore Charles Krauthammer aveva annunciato nel 1990 un “momento unipolare” [potere incontrastato degli USA e crollo del blocco sovietico n.d.r.]. Ma non molto dopo l’11 settembre 2001, dal 2003 in poi, con l’invasione dell’Iraq, l’amministrazione Bush riuscì a dissipare il capitale politico accumulato dagli Stati Uniti a partire dal 1990. Gli Stati Uniti hanno vissuto nel periodo più recente un reale declino della propria influenza, specialmente in Medio Oriente, dal picco della loro egemonia negli anni 1990-91 quando scatenarono la loro prima guerra in Iraq. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Iraq, senza conseguire neppure uno degli obiettivi di fondo che l’amministrazione USA aveva in mente quando aveva attuato l’invasione, è una sconfitta tremenda e un disastro per il potere statunitense. Penso sia stato Henry Kissinger a dire che se gli Stati Uniti fossero stati sconfitti in Iraq sarebbe stato “peggio del Vietnam”. Penso che sia esattamente ciò che è accaduto, perché quello che è in gioco nel Medio Oriente e nel Golfo è molto di più che nel Vietnam. Gli USA isolati sulla Palestina ATC: Questo porta alla mia domanda successiva, circa il significato del voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sullo status di “stato non-membro” della Palestina. Questa sembra per gli Stati Uniti una sconfitta peggiore di quanto avrebbe potuto significare realizzare effettivamente uno stato palestinese. GA: Esattamente. Questo è uno degli esempi più impressionanti di ciò che stavo appena dicendo. E’ un reale schiaffo in faccia e ha dimostrato un grado d’impotenza dell’impero che è molto sorprendente e che in realtà non avevamo costatato sin dall’era di declino precedente, negli anni ’70. Ora sembra che gli Stati Uniti e Israele siano isolati, assieme soltanto al Canada, alla Repubblica Ceca e ad alcuni stati fittizi delle isole del Pacifico. Il modo in cui l’Europa, in particolare, ha rotto con Washington è proprio un indicatore di questo declino del potere imperiale, specialmente se lo si confronta con quanto sta accadendo in Medio Oriente. Il grado in cui manca di una reazione reale agli eventi nella regione e sta soltanto cercando di adattarsi alla situazione, senza alternative alla scommessa sulla Fratellanza Mussulmana, come sta cercando di fare, tutto questo dimostra quanto l’egemonia regionale statunitense sia stata persa. Per quanto riguarda la misura in cui ciò ha a che vedere con i “due stati” (in Israele-Palestina) per quei paesi che hanno votato a favore o si sono astenuti sulla risoluzione dell’ONU, ovviamente ciò è collegato alla soluzione a due stati. Essi ritengono che un voto negativo sarebbe interpretato come un rifiuto di tale formula che essi hanno appoggiato da decenni. E’ anche il modo in cui l’Autorità Palestinese ha presentato il tema, come “l’ultima possibilità per una soluzione a due stati.” Tra i palestinesi questa è stata considerata prevalentemente una vittoria morale, dopo una catena così lunga di sconfitte di ogni genere e di fronte a una schiacciante forza militare come Israele che continua i suoi massacri a Gaza. Il voto è anche arrivato dopo un’altra vittoria morale, il fiasco dell’ultimo attacco di Netanyahu contro Gaza. ATC: L’Europa darà un seguito alla sua irritazione per l’espansione dell’insediamento israeliano “E1”? [Questo progetto, alla periferia di Gerusalemme Est, annunciato da Israele dopo il voto dell’ONU, taglierebbe la West Bank a metà]. GA: Questo resta da vedere, la manifestazione d’irritazione questa volta è chiaramente più forte che in occasioni precedenti. Questo specifico segnale di espansione dell’insediamento è qualitativamente più dannoso delle decisioni precedenti, a causa del problema di Gerusalemme Est e delle sue implicazioni per l’integrità territoriale di un ipotetico stato palestinese. Netanyahu ha interpretato il voto statunitense come un semaforo verde, così in realtà è sugli Stati Uniti che ricade la responsabilità diretta di questo, anche se Washington ha cercato di prendere le distanze. Netanyahu non avrebbe osato sfidare il mondo e Washington, ma Israele potrebbe sfidare chiunque altro fintanto che gli Stati Uniti se ne tengono fuori. Come tutti sappiamo, l’influenza dell’Europa su Israele è relativamente limitata. Ci sono mezzi attraverso i quali potrebbe esercitare pressioni, come bloccare i loro accordi di scambi privilegiati ed entrando efficacemente a far parte dei paesi BDS (Boicottaggio, Disinvestimenti, Sanzioni). Ma cose simili sono tanto al di là delle politiche dell’Europa che è difficile immaginarle. La questione cruciale è che Israele dipende soprattutto dagli Stati Uniti e colpisce il fatto che persino il presidente Obama, che per molti versi ci si aspettava fosse favorevole ai palestinesi, abbia rinunciato a qualsiasi possibile contrasto. Se si considerano i decenni successivi ad Eisenhower, è l’amministrazione di Bush senior che risulta quella che si è spinta più in là nell’esercitare pressioni su Israele, nel 1991, esattamente al picco dell’egemonia statunitense, quando ha spinto il governo di Yitzhak Shamir a partecipare ai negoziati di Madrid. Gli Stati Uniti avevano minacciato di ritirare garanzia per un prestito di 10 miliardi di dollari che Israele stava perseguendo all’epoca. Da allora non abbiamo visto nulla di simile. Naturalmente Bush junior è stato in totale armonia con i governi più a destra in Israele dove abbiamo visto dal 2001 uno spostamento ininterrotto a destra ma ciò è proseguito con l’amministrazione Obama, il che è un riflesso del fatto che l’influenza statunitense è in rapido declino. Washington non è nella condizione di esercitare pressioni sul suo alleato più affidabile. ATC: La mia sensazione è stata che ci sia stato un accordo secondo il quale Israele non avrebbe attaccato l’Iran contro il desiderio degli Stati Uniti, il che sarebbe stato folle comunque, mentre gli Stati Uniti di fare il bello e il cattivo tempo nei Territori Palestinesi Occupati e a Gaza. Ha senso? GA: Io penso che tali “accordi”, se vogliamo, non siano espliciti ma possano essere impliciti. L’amministrazione Obama si è trovata di fronte a minacce israeliane di un’azione unilaterale, e va detto che la rielezione di Obama è stata una sconfitta per Netanyahu, che scommetteva su Romney, nella fiducia che Romney avrebbe dato semaforo verde o addirittura avrebbe partecipato a un’azione militare contro l’Iran. La verità e che non solo l’amministrazione Obama, ma anche i pezzi grossi ai vertici del Pentagono sono preoccupati di una simile prospettiva (di un’azione israeliana). Non sono disponibile ad assumersi un simile grande rischio solo nell’interesse di Netanyahu. Lo stesso vale per l’esercito israeliano; trapelano addirittura notizie e ci sono rivelazioni da parte dei circoli dei servizi segreti e della sicurezza israeliani che quella sarebbe un’avventura folle. L’Iran dispone di missili e razzi e lo stesso vale per Hezbollah in Libano. Non è una cosa priva di rischi come lo è stato il massacro a Gaza per Israele. Il risultato finale è che Netanyahu, avendo convocato elezioni a gennaio, una volta che ha costatato la sconfitta di Romney, ha ridotto le sue ambizioni e ha attaccato Gaza in larga misura come manovra elettorale sostitutiva del suo desiderio di attaccare l’Iran. Ma ciò risulta essere un errore. Quello che succederà dopo di ciò … penso sia difficile immaginare Israele che lancia un attacco contro un bersaglio come l’Iran senza un chiaro semaforo verde dagli Stati Uniti. Sarebbe una cosa così folle che non penso l’esercito israeliano la accetterebbe. ATC: Tu avevi correttamente previsto che le vittorie delle rivolte nonviolente della Primavera Araba non si sarebbero ripetute nel caso di regimi come la Siria. Qual è il tuo punto di vista sulla crisi che è esplosa in quel paese e cosa stanno tentando di fare le potenze esterne? GA: Gli Stati Uniti e l’Europa, specialmente la Gran Bretagna, hanno avuto politiche, nella regione, intese a evitare quello che consideravano un cambiamento “caotico”. Il motto di Washington, molto in anticipo, dal gennaio 2011, è stato “transizione ordinata”, l’espressione ripetuta innumerevoli volte dai dirigenti USA, compresi Obama e Hillary Clinton. E’ il tipo di “transizione ordinata” che hanno forzato nello Yemen, con l’aiuto delle monarchie petrolifere del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). E’ stato un genere di accomodamento che ha derubato il movimento popolare yemenita della sua vittoria, un compromesso assolutamente frustrante che non sta funzionando, perché ha lasciato il paese del tutto instabile. Hanno ottenuto un accordo negoziato in base al quale il presidente ha passato il potere al suo vice, mentre lo mantiene dietro le quinte e la sua famiglia comanda l’esercito, un vero tentativo di abortire il processo rivoluzionario. E’ esattamente ciò che gli Stati Uniti perseguono quando c’è una grande rivolta di massa e il cambiamento appare inevitabile, come in Libia, dove l’obiettivo dell’intervento è stato di cercare di controllare il processo. Anche se non hanno potuto intervenire sul terreno, perché i ribelli libici non avrebbero accettato truppe straniere, hanno continuato a negoziare con il figlio di Gheddafi (Seif al-Islam). Ma gli insorti non hanno accettato tali limitazioni e alla fine il regime è stato abbattuto dalla rivolta nella capitale. In Siria hanno cercato, nuovamente, di realizzare la “transizione” senza fornire alcun sostegno reale alla rivolta. Naturalmente non ci sono interventi militari diretti degli USA o della NATO e il rifiuto di armare la rivolta spiega il grande squilibrio militare tra i ribelli e il regime. Obama stesso ha parlato della “soluzione yemenita” per la Siria. Non molto addietro il primo ministro britannico, David Cameron, aveva affermato che la sicurezza di Assad avrebbe potuto essere garantita se egli avesse lasciato il paese. Si tratta di arroganza imperiale senza limiti. Indica di cosa si occupa questa gente e quanto sia sbagliato credere che Washington stia tentando con forza di rovesciare il regime. La loro principale preoccupazione è quella che Washington e Londra chiamano “la lezione dell’Iraq”, dove hanno smantellato l’esercito e lo stato iracheno, cosa che si è rivelata successivamente la loro principale cantonata. E’ una valutazione errata dei motivi della loro sconfitta in Iraq, che sono molto più profondi di ciò, ma dal loro punto di vista hanno commesso un enorme errore nello smantellare lo stato baathista e non vogliono ripeterlo. Ribadiscono le stesse formule a proposito della Siria: cercare di raggiungere un accordo con uno dei principali settori del regime. Non stanno ottenendo successi in tale direzione, non più che in Libia, perché il conflitto è tale che è inimmaginabile, dopo una simile distruzione da parte di un regime e di una famiglia governante che sono disposti a distruggere lo stesso proprio paese, tra cui città intere come Homs e Aleppo mi ricorda il massacro israeliano in Libano e la distruzione della periferia di Beirut nel 2006 che il popolo sia disposto a coesistere con un qualsiasi settore principale di una macchina statale organizzata su basi così settarie. Credere che sia possibile è una totale illusione. ATC: Dunque dove vedi indirizzata la situazione da qui? GA: Non penso che ci sia altra soluzione che la fine del regime; la situazione è completamente irreversibile. Dunque la grande domanda non è se il regime cadrà, bensì quanto presto cadrà. Quanto più tempo ci vorrà tanto maggiori il costo e umano e anche il costo politico, perché si stanno creando le condizioni per un deterioramento della scena politica anche all’interno della rivolta. Nell’assenza del sostegno occidentale, l’appoggio alla rivolta è venuto dalla monarchia saudita, canalizzato attraverso forze fondamentaliste. Questa diventa una profezia che si autorealizza del regime, che ha affermato dall’inizio che si trattava di una grande “cospirazione dei salafiti e di al-Qaeda” e che ha fatto del suo meglio per produrre questo risultato. Ciò è naturalmente molto preoccupante, ed è per questo che quanto più si trascina il conflitto, peggio sarà per il futuro della Siria. E’ nei migliori interessi del futuro della Siria che il regime cada molto presto. Ciò sembra piuttosto difficile, sfortunatamente, anche se in confronto con l’anno scorso, quando la situazione ha cominciato a militarizzarsi, il regime ha perso molto del terreno e si vede quando rapidamente le cose possano svilupparsi. Dipende anche dai rifornimenti alla rivolta, e ci sono state notizie di sostegno dal Qatar e di acquisti di missili terra-aria da parte degli insorti. Ma, a parte cose di questo genere o un collasso interno delle forze del regime, le cose possono trascinarsi per molti mesi, anche un anno o più. ATC: Per finire, c’è la nuova crisi politica in Egitto. Puoi esprimere brevemente una valutazione? GA: Il problema in Egitto, da un lato, è che non è una sorpresa che la Fratellanza Mussulmana sia di gran lunga la forza organizzata più potente, dopo il collasso delle istituzioni del regime di Mubarak. La sua vittoria elettorale era da aspettarsi. Il punto chiave non è che abbia guadagnato potere, bensì la reale fragilità della sua vittoria. La vittoria di Morsi non è stata schiacciante ed egli non ha alcuna autorità agli occhi del movimento di massa. Non appena ha decretato la concentrazione del potere, si sono avute grandi e continue manifestazioni di opposizione. La Fratellanza Mussulmana dispone di una forza molto potente in grado di organizzare le masse, ma quello che è nuovo è il grande numero di persone disposte a dire “No”. Nel lungo termine questo regime è in realtà molto debole, una “tigre di carta”, in quanto non ha soluzioni ai maggiori problemi economici e sociali che hanno portato alla rivolta contro Mubarak. Le radici profonde di tutto questo sono da ricercare nei problemi economici e nella grande disoccupazione. Il programma di Morsi non è altro che una prosecuzione del regime precedente; ha appena firmato un accordo con il Fondo Monetario Internazionale alle condizioni solite, che creerà un’insoddisfazione anche maggiore. Dunque la rivolta iniziata nel gennaio del 2011 è lungi dall’essersi conclusa. Siamo solo all’inizio di un processo rivoluzionario molto lungo e quando si costata la rapidità del discredito della Fratellanza Mussulmana in Egitto e in Tunisia, ne derivano motivi di ottimismo per il futuro, non l’atteggiamento pessimista che rileviamo ora specialmente in tante persone dell’occidente che, tanto per cominciare, avevano aspettative sbagliate e ora dipingono negativamente l’intera rivolta. Da Z Net Lo spirito della resistenza è vivo Fonte: http://www.zcommunications.org/the-empire-in-decline-by-gilbert-achcar
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