La pubblicazione di quest'opera molto documentata viene opportunamente a ricordare, a quanti l'avessero già dimenticata, la sorte iniqua toccata a un bambino di soli otto anni. Infatti, al di là del suo interesse storico, questo libro, che narra l'evoluzione dei due più importanti lignaggi di maestri spirituali del Tibet, quello dei Dalai Lama e quello dei Panchen Lama, vuole giustamente stigmatizzare l'intollerabile situazione in cui versa un fanciullo, attualmente tenuto prigioniero per motivi politici il cui fine è l'annientamento della civiltà e della cultura tibetane. La vicenda di questo bambino rivela un gran numero di paradossi. Innanzi tutto si scopre che uno Stato ateo, la Cina comunista, si proclama unico competente nella scelta e nella nomina dei «Buddha viventi». Sia chiaro, non si tratta di una brusca conversione dei signori di Pechino ai valori dello spirito. L'intento è al contrario quello di sradicare dal Tibet il buddhismo, considerato inscindibile dal «separatismo», o almeno di controllarlo. Per questo motivo, Pechino, con una terminologia da Rivoluzione Culturale, proclama di voler «schiacciare la testa del serpente», vale a dire quella del supremo capo spirituale e temporale tibetano, il Dalai Lama. Riassumiamo i fatti così come sono elencati in quest'opera, che punto per punto smentisce la versione cinese opponendovi la verità dei tibetani. Nel 1989, il decimo Panchen Lama, seconda autorità del buddhismo tibetano, muore. Immediatamente inizia la ricerca del suo successore (il bambino in cui si sarebbe reincarnato secondo la credenza propria del buddhismo)... con la «benedizione» di Pechino. La posta è alta: è in gioco l'avvenire stesso del Tibet, perché il Panchen Lama dovrà a sua volta designare e poi educare il successore dell'attuale Dalai Lama. Il 14 maggio 1995, quest'ultimo, conformemente ai suoi doveri e seguendo rituali plurisecolari, riconosce come undicesimo Panchen Lama un ragazzino di sei anni originario di una povera famiglia nomade, Gedhun Choekyi Nyima. La Cina, non potendo accettare l'intervento di una persona cui nega ormai ogni competenza spirituale, rapisce il bambino con i suoi famigliari e, dopo una finta estrazione a sorte in un'urna d'oro, insedia in sua vece un altro bambino della stessa età e dello stesso villaggio. Da quel giorno nessuno ha più visto né sentito il piccolo Gedhun. Parallelamente, una dura campagna di persecuzione religiosa (ipocritamente chiamata «rieducazione») si abbatte ancora una volta sul Tibet e sui monasteri. Le foto del Dalai Lama vengono proibite, e i monaci sono obbligati ad accettare come Panchen Lama il bambino scelto da Pechino e a rinnegare definitivamente l'autorità spirituale del Dalai Lama. Arresti, chiusure di monasteri, morti, fughe, esili... Le conseguenze, purtroppo, sono note. Sono le stesse da molto tempo. Secondo paradosso, il silenzio dell'Occidente. Il paese più popoloso della Terra, membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, firmatario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e della Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo, fa sparire sotto gli occhi del mondo un piccolo di sei anni senza che alcuna protesta ufficiale si levi. Ci rifiutiamo di credere che la paura della Cina o gli interessi commerciali si siano interamente sostituiti ai più elementari doveri umani, alle più semplici virtù e al rispetto che si deve alla persona umana. Sarà allora che questa vicenda è troppo complessa, troppo estranea alla nostra sensibilità? Se anche così fosse, oltre al fatto che ogni cultura e ogni autentica spiritualità sono degne di rispetto, oltre al fatto che meritano tanto più la nostra attenzione in quanto vittime di un terribile genocidio, un aspetto fondamentale dovrebbe imporsi su tutti gli altri. Protagonista di questa storia è un bambino la cui sola colpa è essere nato; un bambino che ha già vissuto più di due anni della sua breve esistenza sequestrato dai cinesi; un bambino privato della sua infanzia che, a causa di una pretesa ragion di Stato, è diventato «il più giovane prigioniero politico del mondo». Questa sola definizione dovrebbe essere sufficiente a suscitare l'indignazione generale. Tanto più che questo bambino, il cui silenzio ci soffoca, ha qualcosa di importantissimo da dirci. Ci dice che attraverso lui è possibile leggere la storia di tutti i bambini oppressi della Terra. Come pretendere, infatti, di far rispettare il diritto internazionale, come sperare di far progredire i valori fondamentali della morale riguardo a questi milioni di bambini che, ovunque, sono sfruttati, percossi, violentati, uccisi, se non si è capaci di occuparsi subito del più conosciuto tra loro, vittima di un evidente e grossolano terrorismo di Stato? Questo non è solo un dramma individuale, è un caso esemplare, una questione di credibilità in cui viene sollecitata la nostra responsabilità di «testimoni».
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