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16 luglio 2012

Un difficile addio
di Maso Notarianni

Perché non riesco a scrivere, oggi? Perché il fatto che tra una settimana circa questo giornale online verrà chiuso è la cosa più difficile da scrivere che mi sia capitata. Questo sito, che prima si chiamava PeaceReporter, ha contribuito a cambiare il modo di fare giornalismo nel nostro Paese. Quando cominciammo, nel 2003, i giornali online – quelli indipendenti, non le trasposizioni di quelli di carta – in Italia erano una realtà praticamente sconosciuta. La nostra prima battaglia vinta è stata quella. Eravamo “controinformazione” con tutto quello che di buono questo termine porta con sé, ma anche con tutto quello che di negativo – soprattutto nel mondo del giornalismo – quella parola indica. Poi siamo diventati autorevoli, ed è stato bello vedere, quando si andavano a trovare i colleghi dei giornali mainstream, che agli esteri c’era sempre un computer con il nostro sito nel monitor. Così come è stato bello, poi dopo un po’ ci siamo stufati, guardare quanti articoli che noi avevamo già scritto finivano sui giornali. Qualcuno, all’inizio, tantissimi dopo un anno o due. Questa è stata la nostra seconda sfida vinta: riuscire a diventare indispensabili a chi si occupa di notizie dall’estero. E riuscire in qualche modo a cambiare il modo di fare informazione. Le guerre dimenticate sono state riscoperte. Molte bugie sono state svelate. Farne l’elenco sarebbe davvero troppo lungo. E un esercizio inutile, peraltro, che farebbe solo aumentare quel dolore che oggi in redazione ci portiamo dentro.

Oggi ci salutiamo, dunque. Chiudiamo la baracca, come si dice. L’ultimo numero del mensile E sarà quello di agosto, tutto da leggere a partire dall’editoriale di saluto del direttore Gianni Mura,  e il sito si fermerà l’ultimo venerdì di luglio. Ma era giusto avvisare per tempo. Siamo consapevoli di lasciare un buco importante, ma certi anche di aver assolto al compito fondativo: quello di far aprire gli occhi su quel che accade nel mondo. Di avvicinare culture e raccontarle per come sono, e cioè più vicine e simili di quanto molti pensano perché ingannati da una informazione spesso troppo superficiale.

Rabbiosamente ci arrendiamo al mercato, pessimo misuratore della qualità dell’informazione, drogato in Italia più che in qualsiasi altro paese occidentale dal perverso rapporto tra editori e politica (che ha generato una tra le peggiori leggi per il sostegno all’editoria che si possa immaginare) e tra editori e affari, che non è solo il “conflitto di interessi” di Berlusconi, ma il fatto che non ci siano editori puri che si misurano con il libero mercato. E che informazione, pubblicità, distribuzione (sia fisica che virtuale) dei contenuti giornalistici siano concentrati nelle mani di pochi che gestiscono a cartello l’esistenza in vita di questo e di quello. Non a caso l’Italia è al 62° posto nel mondo nella classifica che racconta della libertà di stampa.

Cose da ricordare ne abbiamo tante, alcune serie e altre meno. Le interrogazioni parlamentari che abbiamo causato (l’ultima proprio in questi giorni) sbugiardando le dichiarazioni dei ministri della Difesa e dei presidenti del Consiglio di ogni parte sulla guerra irachena e afgana, le ricordiamo tra quelle serie, la nostra proposta – una provocazione – di mandare i militari non in guerra ma nei cantieri per verificare il rispetto delle leggi a tutela dei lavoratori. E potete immaginare lo stupore di leggere il giorno dopo che La Russa aveva poi deciso di farlo. E poi tornando alle cose serie, l’organizzazione del primo 1° marzo di sciopero degli stranieri, la lettera al sindaco di Milano Letizia Moratti di Marco Formigoni, i tanti premi vinti dalla redazione, i primi webdocumentari, nuova forma di espressione dell’informazione online di cui siamo stati pionieri in Italia, i tanti reportages esclusivi fatti dalle zone più difficili del pianeta. Grandi risultati e grandi soddisfazioni ottenuti perché siamo stati una grande squadra, fatta di belle persone e di grandi professionalità.

Oggi ci salutiamo, in un mondo che è parecchio cambiato rispetto al 2003, ma che ancora deve sciogliere i nodi drammatici che impediscono la convivenza civile tra i popoli. Eravamo ottimisti, quando nascemmo, perché c’era un enorme movimento planetario per la pace. Non un movimento genericamente pacifista, ma consapevole del fatto che la pace può essere costruita solo costruendo diritti, facendo rispettare quella Dichiarazione Universale che se fosse applicata davvero impedirebbe i grandi squilibri tra nord e sud del mondo, tra paesi ricchi e paesi poveri, ma anche garantirebbe a tutti una vita migliore e più degna di essere vissuta. Le pari opportunità (di sesso, di censo, di classe, di colore), il diritto all’istruzione, alla sanità, al lavoro.

Dopodiché chiudiamo quando questi diritti evaporano rapidamente anche nel nostro Paese, e questa è la nostra sconfitta. Che speriamo possa essere solo momentanea. Perché nessuno di noi smetterà di battersi perché questi diritti siano riconosciuti e rispettati, in Italia e nel mondo.

Inutili, sappiamo di non essere stati, dunque. Abbiamo seminato tanto, e non siamo stati capaci di raccogliere. Non dal punto di vista del mercato, appunto, non dal punto di vista della sostenibilità di una impresa che ha avuto grandi successi e grandi meriti ma nessun rientro economico.

Ora, non resta che salutarci. Nella speranza di ritrovarci presto. Dove, come e quando non lo sappiamo ancora. Un abbraccio a tutti da tutti noi. E grazie, a tutte e tutti quelli che in questi dieci anni hanno fatto informazione con noi, a chi ha contribuito a tenere in piedi il progetto, a tutti voi che ci avete letto e sostenuto.

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