di Lettera22 per il Fatto Cina, giornalista di Al Jazeera espulsa per documentario sui detenuti ‘sfruttati’ Secondo il sito Shanghaiist, la corrispondente è stata cacciata per un'inchiesta sui campi di rieducazione attraverso il lavoro, in cui gli arrestati sono impiegati come manodopera a costo zero. La cronista, però, non ha partecipato alla realizzazione del video Con un grazie sentito ai sostenitori e un messaggio su Twitter, Melissa Chan, ormai ex corrispondente della redazione inglese di al Jazeera da Pechino, ha confermato la sua espulsione dalla Cina. “Non mi è stato rinnovato l’accredito, non farò più corrispondenze dalla Cina”. Segue il link al comunicato con cui l’emittente panaraba ha annunciato la chiusura degli uffici nella capitale cinese. Non accadeva dal 1998 che un giornalista straniero fosse espulso dalla Repubblica popolare, quando lo stesso destino toccò al giapponese Yukihisa Nakatsu dello Yomiuri Shimbun e al tedesco Juergen Kremb del settimanale Der Spiegel, entrambi accusati di aver avuto accesso a segreti di Stato, una categoria di informazioni molto ampia in Cina. Il mancato rinnovo dei documenti per la giornalista statunitense è invece legato a un documentario andato in onda lo scorso novembre. Secondo il sito Shanghaiist, il filmato incriminato è un’inchiesta sui laogai, i campi di rieducazione attraverso il lavoro in cui i detenuti sono sfruttati come manodopera a costo zero, alla cui realizzazione l’ex corrispondente, in Cina dal 2007, non ha però partecipato. “Diamo voce a chi non ce l’ha. Spero che la Cina apprezzi l’integrità del nostro lavoro”, ha detto il direttore delle news di al Jazeera, Salah Negm. E dire che quando fu aperto l’ufficio di corrispondenza, il governo cinese credette che un’emittente non occidentale avrebbe dato un’immagine del Paese più in linea con i propri desideri rispetto ad altri gruppi editoriali. Soprattutto quelli di matrice anglosassone come Bbc e Cnn, i cui servizi dalla Cina sono spesso bersaglio delle frange più oltranziste del nazionalismo cinese. Nei cinque anni passati a Pechino, Chan ha tuttavia affrontato temi sensibili per la dirigenza cinese, come i casi di corruzione, le minacce e gli abusi contro Liu Xia, moglie del premio Nobel per la Pace, Liu Xiaobo, la storia dei bambini e delle bambine morti nel crollo delle scuole durante il terremoto del Sichuan nel 2008. Da ultimo, proprio nei giorni in cui l’Assemblea nazionale del popolo discuteva della riforma del codice penale, ha indagato sulle prigioni segrete cui fanno ricorso le autorità locali per far scomparire dissidenti, attivisti o semplici cittadini che intendevano far arrivare petizioni al governo centrale. Il ministero degli Esteri cinese, che regola i visti e gli accrediti dei corrispondenti stranieri, non ha rilasciato alcun commento. Pressato in conferenza stampa, il portavoce della diplomazia cinese, Hong Lei, ha però voluto rimarcare “l’apertura e la libertà” concesse ai giornalisti stranieri da Pechino. “Allo stesso tempo devono però rispettare le leggi e le regole cinesi”, ha aggiunto. Una precisazione che rimanda al clima di controllo che in questi giorni ha caratterizzato il lavoro dei corrispondenti in attesa davanti all’ospedale pechinese in cui è ricoverato l’avvocato cieco Chen Guangcheng. Attivista contro gli aborti forzati, Chen si era rifugiato a fine aprile nell’ambasciata statunitense, al cui interno è rimasto una settimana, proprio nei giorni in cui il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, era nella capitale per il Dialogo Economico Strategico tra Washington e Pechino. Mentre si resta in attesa dei documenti che permetteranno a Chen di partire negli Stati Uniti per completare gli studi, così come stabilito per porre fine alla vicenda, molti giornalisti riferiscono di essere stati convocati dall’ufficio per la sicurezza pubblica per chiarimenti sui propri visti. Già davanti all’ospedale i controlli dei documenti erano diventati una prassi, spesso effettuati dagli stessi funzionari che gestivano le loro pratiche di rinnovo e che, addirittura, gli salutavano per nome. “Ora iniziano i problemi”, aveva commento su Twitter Tom Van de Weghe, della tv belga in fiammingo VRT, subito dopo essere stato convocato dagli agenti per i servizi sul caso Chen, ufficialmente perché entrato nell’ospedale senza autorizzazione. “Si tratta di un esempio lampante di come i visti per i giornalisti stiano diventando uno strumento per censurare e intimidire i corrispondenti”, si legge nel comunicato dell’Associazione della stampa estera in Cina, “il governo non ha il diritto di scegliere chi debba lavorare per le testate”. La stessa Chan, secondo quanto riferisce la stampa estera, ha vissuto negli ultimi tre mesi con sulla testa la spada di Damocle di visti temporanei, per brevi periodi, senza che le venisse concesso l’accredito standard della durata di un anno. Quando alla fine l’ultimo visto di un mese è scaduto Chan è stata costretta a lasciare il Paese. Sorte che in Italia la accomuna a Tiziano Terzani, espulso nel 1984 per crimini controrivoluzionari dopo un mese di rieducazione. Dopo un’apparente apertura per i Giochi olimpici del 2008, negli ultimi anni Pechino sembra aver optato per una linea più dura nei confronti dei giornalisti stranieri. E le restrizioni si sono fatte più pressanti nell’ultimo anno per la reazione cinese al rischio che movimenti sulla falsa riga delle “primavere arabe” potessero diffondersi anche in Cina e con l’avvicinarsi del cambio di leadership previsto per l’autunno.
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