InvisibleArabs Hunger Palestina
1550 uomini. Questo è il numero approssimativo dei detenuti palestinesi in sciopero della fame. 1550, forse di più. Perché alcune fonti parlano di duemila, altre di 2500. Potrebbe essere una cifra esagerata. E allora fermiamoci ai 1550. 1550 uomini in sciopero della fame, in una protesta partita formalmente il 17 aprile scorso, il “giorno dei prigionieri”. 1550 detenuti palestinesi che nelle carceri israeliane rifiutano il cibo. Di sicuro da venti giorni, il che non è uno scherzo. Alcuni di loro, però, non mangiano (per protesta) non da venti, bensì da quaranta, e alcuni da 70 giorni. 10 detenuti sono sotto osservazione perché in condizioni critiche. Due di loro, Bilal Diab e Thaer Halahla rischiano di morire: sono al 70esimo giorno di sciopero della fame, e oggi la Corte Suprema israeliana ha rigettato il loro appello contro la detenzione preventiva. Perché questo è il motivo della protesta collettiva, la più importante nella lunga, tragica storia dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, dossier accuratamente nascosto ed evitato nei negoziati di questi ultimi decenni. I palestinesi vengono arrestati e messi in carcere spesso in detenzione preventiva, e dunque non solo senza processo, ma senza accusa. Una pratica costante e frequente, che rende assolutamente imprevedibile la durata della detenzione, precaria la vita, arbitraria la giustizia. Amnesty ha chiesto un intervento urgente a favore dei due detenuti che rischiano seriamente la loro vita, mentre il vero missing in action è il ruolo dell’informazione. Quello che sta succedendo lo si sa solo attraverso la Rete, i social network, twitter, Facebook, i blog, i siti di notizie. Raramente, e solo negli ultimissimi giorni, su qualche giornale. Rarissimamente sulla stampa italiana. Nonostante sappiatelo ci sono colleghi che un articolo sullo sciopero della fame nelle celle lo hanno proposto: nessuno, all’altra capo del telefono, lo ha però accettato, e pubblicato. Che senso ha, dal mero punto di vista dell’informazione? Se i 1550 detenuti fossero stati in Colombia, ci sarebbe almeno stata un vivo ampex nei telegiornali, e una breve sui quotidiani generalisti. E invece niente, o quasi niente. Sonderweg, il destino speciale di questa parte del Medio Oriente. Bilal Diab, 27 anni, è in detenzione preventiva dall’agosto scorso, prima per sei mesi. E poi, nello scorso febbraio, il periodo di detenzione amministrativa è stato rinnovato per altri sei mesi. Una pratica tanto frequente che molti prigionieri restano in carcere per anni, senza accuse. Il suo, insomma, non è un caso a parte, un caso speciale, è un caso come tanti. Ma né il suo, né quello degli altri fa notizia. Da anni.Mi ricordo che riuscii ad aver il permesso dalle autorità israeliane di visitare un carcere, e di parlare con degli attivisti palestinesi, accompagnata da un fotografo israeliano e una interprete. Fu una esperienza molto, molto interessante. A suo modo, per i giornalisti italiani, quasi unica. Proposi il reportage, me lo pubblicarono su un settimanale italiano, sacrificando le bellissime foto e il testo in uno spazio incredibilmente piccolo. Ho sempre trovato questa scelta come molte altre uno scadimento della qualità della nostra professione. Lo stesso scadimento che ha fatto trovare impreparato il giornalismo italiano di fronte alle rivoluzioni arabe, salvo rarissime eccezioni. 1550 uomini senza nome digiunano, la gran parte da 20 giorni. Alcuni da 40. Alcuni stanno per morire. In silenzio. Ha senso, da punto di vista dell’informazione? Ha senso, dal punto di vista della storia di questo conflitto? E ancor di pù, ha senso dal punto di vista dei diritti (civili, umani, …)? Intere generazioni di palestinesi hanno passato almeno una notte in una galera israeliana, nella loro vita. Per un sasso tirato, una retata in un paesino della Cisgiordania, un lavoro nero, una multa non pagata, una litigata con un soldato a un checkpoint. Non solo, non sempre e non spesso per atti di terrorismo. Ne sapete qualcosa, di tutto questo? Vi hanno mai raccontato quante sono le carceri, in Israele, dove sono, quanti detenuti ci sono, in quali condizioni? Dovreste chiederlo alla Croce Rossa Internazionale, in sostanza l’unica che ha accesso al “dossier prigionieri”, un dossier polveroso, chiuso in un cassetto, che praticamente nessuno ha il coraggio di aprire. Salvo quando, dopo e forse a causa delle rivoluzioni arabe, qualcuno ha pensato di sollevare il caso, usare lo sciopero della fame, strumento antico e terribile perché oppone la debolezza all’uso della forza. Disarma chi ha la forza con la sola forza del digiuno. Vorrei andare al cinema e vedere Hunger, se non fossi qui a Gerusalemme. Perché quel caso, altrettanto controverso, segnò la mia generazione. Era il caso di un ragazzo, Bobby Sands. Qui, senza volto, ce ne sono molti, molti di più. Se volete sapere qualcosa, cercate #PalHunger su twitter. Troverete, per esempio, che la grafica araba, anche nel caso del digiuno di massa dei prigionieri palestinesi, sta mostrando tutte le sue abilità. Anche queste abilità sono la faccia nascosta degli arabi invisibili: non è una grafica nata dalle rivoluzioni, è piuttosto un’arte che le ha fecondate.
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