Fonte: Z-Net
Originale: Jadaliyya
http://www.palestinarossa.it
20  luglio 2012

Noam Chomsky: riflessioni su sionismo, questione palestinese e imperialismo USA
Noam Chomsky e Mouin Rabbani 
Traduzione a cura di Giuseppe Volpe

Nell’intervista seguente, realizzata per il Journal of Palestine Studies dal co-direttore di Jadaliyya, Mouin Rabbani, Noam Chomsky riflette su una vita di impegno sulla Questione Palestinese. Riflette sul suo impegno iniziale e su come esso si è sviluppato nel corso della sua vita. Considera anche come le cose sono – o non sono – cambiate e quale potrebbe e dovrebbe essere la rotta del conflitto israelo-palestinese.

Mouin Rabbani: A proposito della politica estera statunitense di oggi tu sei stato molto critico della tesi di Mearsheimer e Walt sulla politica statunitense in Medio Oriente.

Noam Chomsky: Beh, mi piacerebbe che avessero ragione, perché in tal caso c’è un’ovvia implicazione tattica e potrei smettere questo lavoro infinito, scrivere, parlare, cercare di organizzare … sarebbe tutta una perdita di tempo. Basterebbe mettersi giacca e cravatta e andare al quartier generale industriale della General Electric, della JP Morgan Chase, della Camera di Commercio statunitense, del Wall Street Journal e spiegare educatamente che la politica estera statunitense in Medio Oriente riguardo a Israele è dannosa per i loro interessi. Non è un segreto che il capitale privato concentrato ha un’influenza predominante sulla politica governativa in ogni genere di modi, perciò se, in effetti, la “Lobby” sta forzando gli Stati Uniti a politiche che sono contrarie agli interessi di questa gente che gestisce efficacemente il paese, dovremmo essere in grado di convincerli. E metterebbero la Lobby Israeliana fuori gioco in circa cinque secondi. La Lobby è una briciola in confronto a loro. La sola lobby dell’industria militare spende molto di più e ha un’influenza molto maggiore della Lobby [israeliana]. E allora perché nessuno ha provato a far così? Beh, perché la cosa è così totalmente poco plausibile che non vale neppur la pena di parlarne, se non per scherzo.

Il problema fondamentale è non aver affrontato il fatto che le politiche governative non vengono dal nulla. Mearsheimer e Walt sono realisti per quel che riguarda la teoria delle relazioni internazionali, che in essenza sostiene che la struttura nazionale del potere non è un fattore significativo nella formazione della politica statale. Si presume che la politica statale si occupi di qualcosa definito “interesse nazionale”, che è una specie di astrazione nell’interesse della popolazione, ma non è così. Da secoli si sa che ci sono fattori diversi nella società, distribuzioni diverse di potere, alcuni più forti di altri …

Dovrebbe essere una verità lapalissiana, ma è come cancellato dalla teoria delle relazioni internazionali. D’altro canto, se lo accettassimo come effettivamente lapalissiano – e, oggi, ci sono prove schiaccianti che lo è – allora dovremmo chiedere perché quelli nella posizione di modellare e decidere la politica governativa statunitense in misura molto decisiva dovrebbero essere disponibili ad accettare qualcosa contrario ai loro interessi. Dovremmo spiegare questa strana contraddizione, perché, se lo volessero, potrebbero cambiare agevolmente la loro politica. Io penso che la spiegazione sia molto semplice: i principali settori del potere privato negli Stati Uniti considerano del tutto accettabili le politiche statunitensi nei confronti di Israele.

MR: Perché?

NC: Perché Israele è una società ricca e avanzata. Ha un settore delle alte tecnologie molto potente che è strettamente integrato con l’economia high-tech statunitense, in entrambe le direzioni. E’ molto potente militarmente, molto intimamente connesso con l’industria militare USA e, di fatto, alla politica militare statunitense. Quando Obama dice “Vi darà gli F-35” quella è una spinta alla Lockheed Martin, una doppia spinta, perché una volta che il contribuente statunitense paga la Lockheed Martin, vengono mandati i reattori in Israele e l’Arabia Saudita non si oppone a ricevere equipaggiamenti di seconda scelta.

Sta succedendo proprio adesso. Il più grande contratto per armamenti mai realizzato è stato appena concluso con l’Arabia Saudita per 60 miliardi di dollari per l’acquisto di equipaggiamento militare. A Israele va bene: l’equipaggiamento e di seconda scelta e non c’è molto che si possa fare con esso in ogni caso. Ma ben al di là di ciò, i collegamenti tra l’esercito e i servizi segreti statunitensi e Israele sono stati estremamente stretti per anni. Le aziende statunitensi costruiscono strutture in Israele (ad esempio la Intel, il più grande produttore di chip) e il nostro esercito si sta recando nel paese per studiare le tecniche di guerriglia urbana. Israele è una ramificazione del potere statunitense in un segmento strategicamente critico del mondo. Ora, naturalmente, questo irrita l’opinione pubblica araba, ma gli Stati Uniti non si sono mai preoccupati di ciò.

MR: Stai dicendo che la Lobby non è un fattore?

NC: No, la Lobby esiste. E’ importante. Non è in discussione; né io né altro abbiamo mai contestato la cosa. E’ ben organizzata, ha le sue vittorie. Ma se va a scontrarsi con interessi cruciali del potere dello stato o del settore imprenditoriale, fa marcia indietro. Ci sono casi uno dietro l’altro che potrei citare. Ma quando quello che fa la Lobby si adegua più o meno agli interessi dei potenti settori nazionali, è influente. Questo vale per le lobby in generale. Ad esempio la lobby indiana negli Stati Uniti ha svolto apparentemente un ruolo importante nel premere sul Congresso perché accettasse il trattato USA-India, che ha effettivamente autorizzato gli Stati Uniti a sostenere indirettamente il programma di armamenti nucleari indiano.

MR: Ma se torniamo ad alcune delle cose di cui abbiamo discusso in precedenza, molti direbbero che dove queste lobby sono più efficaci non è in accordi specifici ma nell’influenzare l’opinione pubblica.

NC: Sì, ma stanno sfondando una porta aperta, perché ci sono motivi indipendenti per cui gli statunitensi propendono per Israele. Ricorda, questo è un rapporto di lunga durata che risale a prima del sionismo. C’è un’identificazione istintiva che è unica. C’è il paragone statunitensi-indiani, sai, i barbari pellerossa che cercano di impedire il progresso e lo sviluppo e attaccano i bianchi innocenti: questo è il conflitto israelo-palestinese. In effetti sta proprio lì, nella Dichiarazione d’Indipendenza, scritta da Thomas Jefferson, il più liberale dei padri fondatori. Una delle accuse contenute nella Dichiarazione contro Re Giorgio III è di aver scatenato contro di noi gli spietati selvaggi indiani, il cui noto modo di fare la guerra consiste nelle torture, le uccisioni e via di seguito. Sarebbe potuto venir fuori direttamente dalla propaganda sionista. E’ una tensione molto profonda nella cultura e nella storia statunitensi. Dopotutto il paese è stato fondato da estremisti religiosi che agitavano il Libro Sacro e si descrivevano come figli d’Israele di ritorno nella Terra Promessa. Così il sionismo ha trovato qui da noi il suo ambiente naturale.

MR: Dunque tu collocheresti la Lobby principalmente all’interno del più ampio sfondo culturale, in cui gli statunitensi guardano Israele e riconoscono sé stessi?

NC:  Per molti statunitensi è semplicemente istintivo che gli ebrei stiano rivivendo in Israele la loro storia. Si riconoscono e inoltre riconoscono i crociati che riuscirono a rovesciare i pagani. C’è, qui, un’analogia con la conquista statunitense del territorio nazionale; anche i sionisti utilizzano quest’analogia, ma positivamente. Stiamo portando la civiltà ai barbari, il che, dopotutto, è l’intero nucleo dell’ideologia imperialista occidentale. E’ radicato molto profondamente.

MR: Ma tutto questo riguarda il grande pubblico statunitense, “l’americano medio”, se vuoi. Ma che dire della comunità intellettuale statunitense? Perché propende per Israele?

NC:  Beh, non è stato perché la Lobby improvvisamente è diventata più efficiente nel 1967. Diciamo che alcuni intellettuali della sinistra liberale che in precedenza provavano scarso interesse per Israele, o gli erano avversari, improvvisamente ne sono diventati sostenitori appassionati. La propaganda della Lobby c’è sempre stata. In realtà prima del 1967 non era riuscita nei suoi tentativi di far sì che riviste statunitensi come Commentary, o pubblicazioni come il New York Times adottassero una linea più sionista.

Ma naturalmente parlare della Lobby è difficile perché cos’è la Lobby? Sono gli intellettuali statunitensi? E’ il Wall Street Journal, il principale giornale economico del sistema politico? E’ la Camera di Commercio? E’ il Partito Repubblicano, che è considerevolmente più estremo dei Democratici anche se la maggior parte degli ebrei vota per i Democratici e la maggior parte dei fondi ebraici va ai Democratici.

MR: Quali sono le implicazioni di questi punti che stai proponendo per chi vorrebbe vedere un cambiamento nella politica statunitense in Medio Oriente?

NC: Beh, penso significhi che dobbiamo riconoscere che se le politiche governative devono cambiare, cambieranno grazie a movimenti popolari di massa sufficientemente influenti da diventare un elemento della pianificazione politica, come il movimento contro la guerra negli anni ’60.

MR: Hai alluso più volte alla natura esplosiva dell’argomento, alla difficoltà di dibatterlo negli Stati Uniti. Hai visto qualche cambiamento?

NC: Per molto tempo è stato difficile da discutere, e le conferenze sul tema creavano grandi furori e a volte violenze. Ho centinaia di esempi, ma te ne citerò uno dei tardi anni ’80 quando fui invitato a tenere una settimana di seminari all’UCLA. Naturalmente, parallelamente, tenevo discorsi politici. Il tema principale era l’America Centrale, sui cui vertevano principalmente questi dibattiti. Ma un professore, una specie di colomba sionista, mi chiese se potevo tenere un discorso sul Medio Oriente ed io dissi: “Certo”. Un paio di giorni dopo ricevetti una telefonata dalla polizia del campus che voleva che avessi la protezione della polizia in uniforme per tutta la durata della mia permanenza nel campus, ero d’accordo? Beh, no. Non ero d’accordo. Ma per tutto il tempo sono stato comunque seguito dalla polizia in borghese; se ne stavano seduti nella sala del seminario, dove tenevo le mie conferenze e mi seguivano al circolo della facoltà e così via, le fondine al fianco. Ci furono un mucchio di trambusto e di emotività crescenti a proposito del mio discorso sul Medio Oriente, che fu tenuto nell’auditorium centrale del campus; sicurezza tipo aeroporto, ingresso da un’unica porta, tutto ispezionato e così via.  Il discorso andò avanti, non fu interrotto, ma dopo che io me ne andai ci fu un enorme attacco personale contro di me nella stampa del campus, non solo contro di me ma anche contro il professore che mi aveva invitato. Ci fu persino un movimento nel campus per revocargli la docenza che, naturalmente, fallì; era una figura di spicco. Ma fu indicativo dell’orientamento all’epoca.

E’ stato così anche qui, al MIT. Ogni volta che ho dovuto tenere un discorso la polizia è arrivata  lì e ha sempre insistito per riaccompagnare me e mia moglie, alla fine,  dove avevamo parcheggiato le auto.  Quando parlò qui Israel Shahak, nel 1995, il suo discorso fu fisicamente interrotto da studenti del MIT. In parte la cosa fu grottesca. Ricordo un ventenne che portava uno yarmulke [kippah] che si alzò in piedi e disse: “Come potuto dire questo di noi, quando sei milioni di noi sono morti?” Questo a Israel Shahak, sopravvissuto del Ghetto di Varsavia e a Bergen Belsen! E questo ragazzo gli parlava di come sei milioni di “noi” fossero morti e otteneva grande tifo dall’uditorio. C’erano dietro un paio di miei amici, profughi europei; erano fuggiti intorno al 1939. Dissero di non aver visto niente di simile dai tempi della Hitlerjugend. Ed eravamo nel 1995. Da allora sono cambiati. Stavano già cominciando a cambiare all’epoca, ma nei successivi dieci o quindici anni sono cambiati molto.

MR: A cosa fu dovuto il cambiamento?

NC: Ci sono state molte ragioni. Per cominciare, i giovani studenti palestinesi, qui negli USA, hanno cominciato a organizzarsi sul serio, e non al modo dell’OLP. I temi che hanno introdotto – oppressione, occupazione, aggressione – si sono basati su principi liberali standard. Hanno cominciato a organizzarsi al modo in cui si erano organizzati i movimenti di solidarietà all’America Latina e contro la guerra del Vietnam, e la cosa ha cominciato ad avere un impatto. E’ stato spettacolare dopo l’invasione di Gaza. Voglio dire, l’invasione di Gaza ha fatto infuriare un mucchio di gente. E’ stata una cosa così sfacciata … avevamo un’enorme forza militare che attaccava persone catturate che erano completamente indifese e le distruggeva.