di Lettera22 per il Fatto Calamità, guerre e disordini politici: nel mondo 72 milioni di migranti forzati Il dato pubblicato nel World Disaster Report 2012, a cura della Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Determinanti anche modelli di sviluppo sbagliati. E così una persona su cento è costretta ad abbandonare la propria casa Lo scorso anno una persona ogni cento è stata costretta ad abbandonare la propria casa, in fuga da conflitti o disastri naturali. Ma alle migrazioni forzate contribuiscono anche modelli di sviluppo che ignorano le conseguenze sulle persone. Fenomeno questo spesso messo in secondo piano. Secondi i dati del World Disaster Report 2012 della Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (Ifrc), il numero dei migranti forzati ha raggiunto i 72 milioni, di questi almeno 20 milioni lo sono a lungo termine e per loro il ritorno alle proprie terre appare sempre più lontano, come i 5 milioni di palestinesi nei campi profughi gestiti dall’agenzia delle Nazioni Unite Unrwa. Sulla loro condizione pesa l’immobilismo della politica e una sempre maggiore resistenza dei cittadini a sostenere quanti sono stati costretti a migrare. “Molti Stati hanno deciso che la miseria cui sono costretti i migranti forzati è un giusto prezzo da pagare per evitare di confrontarsi con un tema politico difficile”, si legge nel documento. Non che manchino soluzioni innovative per alleviare le sofferenze di questi milioni di migranti. Le idee nuove ci sono, continua il rapporto, ma ci si continua ad affidare alle strategie del passato. Mentre il costo totale della situazione si aggira attorno agli 8 miliardi di dollari l’anno, contando soltanto i fondi stanziati dai Paesi donatori e non quelli dei governi ospitanti e delle agenzie umanitarie. “I governi devono adottare nuove politiche che riconoscano i diritti dei migranti e li aiutino a diventare parte integrante della società, senza essere considerati dei paria sociali”, ha spiegato Bekele Geleta, segretario generale della Ifrc, esortando i leader mondiali e le agenzie umanitarie a pensare a modi più flessibili per affrontare il tema dell’immigrazione e a nuove forme di integrazione e cittadinanza. Per adesso rimangono gli impegni presi lo scorso novembre quando in occasione della 31esima conferenza internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa a Ginevra, 164 governi firmarono un documento in cui si parlava di rispetto dei diritti e della dignità dei migranti indipendentemente dal loro status legale. Se tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso le parole profugo rifugiato e sfollato richiamavano alla mente l’immagine d tende e campi d’accoglienza, oggi le migrazioni forzate si muovono verso le città, con la popolazione urbana che si prevede crescerà del 72 per cento entro il 2050. Oltre 10 milioni di rifugiati e 13 milioni di sfollati interni vivono nelle aree urbane. Negli scorso decenni le città hanno assorbito migliaia di persone in fuga da disastri naturali e guerre. Successe nel 2010 con il terremoto ad Haiti e con i campi sorti alla periferia della capitale Port-au Prince e ancora prima nel 2009 nella capitale filippina Manila che accolse gli alluvionati per il tifone Ketsana. Senza contare l’afflusso di nuovi cittadini in Yemen, Kenya, Sudan e Somalia. Un esodo che non ha interessato soltanto grandi centri e megalopoli, ma anche città di seconda fascia che hanno visto aumentare la propria popolazione. La maggiore sfida per le agenzie umanitarie è garantire ai migranti integrazione, condizioni di vita accettabili, il diritto alla terra e ala casa, assistenza legale. Oltre naturalmente trovare un contatto con le amministrazioni locali, i partner più importanti per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Il rapporto dà inoltre spazio a quelli che sono definiti i “perdenti messi in secondo piano”. Si tratta di quelle 15 milioni di persone costrette a sfollare per far spazio a progetti infrastrutturali e di riqualificazione urbana, che spesso si traducono nella distruzione dei quartieri poveri. Gli stessi che spesso vedono fallire sulla propria pelle i progetti di ricollocazione decisi dai governi.
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