La Repubblica I Fantasmi dell’Alta Velocita Doveva, in teoria, unire l’oceano Atlantico con l’ultimo avamposto prima della Federazione Russa. Ma il grande progetto concepito negli anni ’90, una linea ferroviaria che collegasse il Portogallo con l’Ucraina, oggi esce ridimensionato da crisi economica e contestazioni. Abbandonato il “Corridoio 5″, il nuovo tracciato porta ora il nome di “Corridoio mediterraneo”, con un nuovo via dalla piccola Algeciras, in Andalusia, al posto della capitale lusitana, che ha dato forfait pochi mesi fa. Intanto anche l’Ucraina sembra sfilarsi, e l’ultima tappa certa potrebbe diventare la più piccola e semisconosciuta Miskolc
LISBONA - Santa Apollonia è la stazione principale. Due binari per convogli suburbani, un treno per Bilbao, una tettoia di ferro e vetro affumicato, aria dall’oceano e dal Tago. Lisbona se ne sta sospesa fra un passato nostalgico d’impero e un futuro internazionale che non verrà più, qualche vezzo liberty e il rimpianto per la promessa - tradita - di diventare la sorgente del mitico “Corridoio 5″, l’asse Lisbona-Kiev che doveva unire l’Europa dall’Atlantico alle steppe con il miracolo delle grandi opere e dell’alta velocità e che invece perde le ali e anche pezzi del suo ventre e del suo cuore. Quinto pilastro di un sontuoso progetto di viabilità europea stabilito nelle conferenze di Creta e Helsinki a metà degli anni Novanta, oggi quel corridoio, spesso nominato (soprattutto a proposito di un suo piccolo tratto, quello tra Torino e Lione) ma mai percorso per intero, rimane sostanzialmente un mistero. Nella sua articolazione, nella sua utilità, nelle prospettive. E il mistero comincia proprio dalla testa. Il 21 marzo scorso il governo portoghese ha annunciato l’abbandono di ogni progetto di alta velocità. Una decisione accolta con flemma: oplà, il Portogallo non c’è più. Del resto, lo vedremo, anche l’Ucraina non si sa bene dove sia andata a finire. Resta in piedi però il sogno di un’Europa unita da una rete di infrastrutture viarie, ma nella forma di una ragnatela di tratti a media percorrenza stesa su tutto il continente e chiamata “Ten-T”. Quanto al Corridoio 5, ridimensionato, viene oggi ribattezzato Corridoio Mediterraneo. Il nuovo tracciato. Lasciamoci alle spalle Santa Apollonia, dunque, e anche l’ambizioso complesso della Stazione del Mare (un solo treno al giorno per Madrid, undici ore, come dire che tanto vale andarci a piedi), ricordo dell’Expo del ’98. Non si va a Madrid, però: rotta a sud. E non in treno, in corriera, fra nuvole-batuffolo, colline, sorgenti africane, mulini (eolici). Sommerso il Portogallo, la penisola iberica torna a sdraiarsi dove l’aveva immaginata Strabone, che qui collocò le porte dell’oltretomba: siamo ad Algeciras, di fronte al Marocco, un tiro di lancia da Gibilterra. È qui che la Commissione europea vuole la fonte del Corridoio Mediterraneo. Palazzine bianche in una conca, un porto dai ritmi frenetici, povertà magrebina, disoccupazione al quaranta per cento. I migranti marocchini si concentrano a Algeciras per essere vicini alle famiglie: “Se il lavoro va male torno prima e spendo meno”, racconta Said Muhammad, titolare di un’agenzia di viaggi. Non ha mai sentito parlare di alta velocità. Don Carlos Fenoy, invece, presidente della Camera di commercio locale è fra i più convinti sostenitori dell’utilità del Corridoio, solo che lo intende in una maniera per noi italiani sorprendente: “Alta velocità per le merci? Lei è matto! Il consumo energetico e l’usura dei carri oltre gli 80 chilometri orari aumentano esponenzialmente i costi. E poi treni veloci e nodi inadeguati significano intasamenti nell’ultimo chilometro: pensi a una grande autostrada con piccoli caselli”. La Spagna del resto sta riducendo drasticamente gli investimenti infrastrutturali: 5.400 milioni di euro in meno rispetto al 2001 (meno 36 per cento e meno 55,6 per cento per il porto di Algeciras). Non solo: molta parte dei finanziamenti è destinata ad alimentare la rete autostradale, non le ferrovie. Eppure, nonostante i tagli, l’alta velocità passeggeri da Algeciras a Bobadilla (raccordo Tav verso Madrid) si farà. E si farà grazie a una soluzione sorprendente. Per scoprirla dobbiamo raggiungere Ronda attraversando un labirinto di alture, forre, aranceti in verticale, voli di aguila calvada, grida d’uccelli (ptuiit!). Un solo binario corre tra i boschi, su ogni traliccio un nido di cicogna, su ogni albero il parassita del vischio. Come potrà una linea ad alta velocità attraversare senza danni questa meraviglia? Rafael Flores, responsabile del nodo ferroviario di Ronda, spiega: “Semplice. Per ottenere lo scartamento adatto ai treni veloci aggiungiamo una terza rotaia all’interno delle due guide sulla linea esistente: i treni lenti correranno sullo scartamento spagnolo, quelli veloci su quello internazionale”. Tutto su un solo binario? “Certo. Con un buon piano di movimento gli incroci si fanno nelle stazioni”. Senza cemento, e senza investimenti colossali. È la scelta del ministro per lo Sviluppo Ana Pastor che, accantonando le previsioni a nove zeri d’epoca zapateriana, stanzia in tutto 1.240 milioni di euro per collegare con il “terzo filo” i porti di Tarragona, Castellon, Valencia e Alicante. Cordoba, Barcellona, Lione. Ma ora, in attesa dell’alta velocità che verrà, per noi è tempo dell’alta velocità che già c’è, quella di cui la rete ferroviaria spagnola è dotata da oltre quindici anni. Ci imbarchiamo così a Cordoba, su un supertreno che gioca all’aereo tra controlli da aeroporto (dopo le stragi di Atocha si può capire) e simulazione d’atterraggio (una voce suadente raccomanda di restare seduti attendendo l’arresto completo del convoglio). Fino a Madrid sono 400 chilometri in un quasi lampo (a prezzi non proprio popolari, 68,9 euro in seconda). Quindi “voliamo” attraverso Barcellona, il confine mediterraneo con la Francia, Perpignan, gli stagni del sud, Montpellier, Lione: niente ci può rallentare, salvo un suicida che inchioda il treno per due ore alle porte della città. È qui che inizia la storia a noi più nota e controversa. Storia di molte lotte e pochi scavi, tutti comunque sul lato francese: tre tunnel esplorativi paralleli al tracciato che dovrebbe collegare St. Jean de Maurienne a Venaus in val Susa. In Italia niente: a Chiomonte si combatte intorno a uno steccato perché, in mancanza di progetto esecutivo, non si può scavare nemmeno un centimetro cubo. Poco sotto St. Jean, all’ingresso del terminal intermodale di Bourgneuf la Rochette, capolinea dell’Autostrada ferroviaria alpina che porta allo scalo italiano di Orbassano, alcuni Tir cisterna attendono il carico sui convogli: quattro al giorno. Pochi, e il progetto che aveva suscitato tante speranze al suo varo sette anni fa è sopravvissuto finora grazie a pesanti sovvenzioni pubbliche: circa 900 euro per ogni mezzo trasportato, oltre cento milioni di euro in contributi statali. Michel Chaumatte, direttore dell’Afa, però è ottimista: “Il problema era la sagomatura delle gallerie di confine che permetteva solo il trasporto di cisterne, ma ora gli ammodernamenti al Frejus ci permetteranno di portare anche i Tir a sezione quadrata raddoppiando la capacità della linea”. I lavori dovevano finire nel 2007, d’accordo, ma la storia del Corridoio è tutta così: i matematici conoscono la legge ricorsiva di Hofstadter - “Ci vuole sempre più tempo del previsto, anche se si tiene conto della legge ricorsiva di Hofstadter” - gli ingegneri e Bruxelles no. Ma se l’Afa passa dal Frejus, il supertunnel della Torino-Lione a che serve? Chaumatte: “Diminuendo la pendenza permette di risparmiare sui costi legati alla trazione”. A patto di non andare veloci: “Diciamo che l’alta velocità è un vantaggio ma riguarda i passeggeri”. Che però, come tutti sanno, sono diminuiti fino a spingere le ferrovie italiane e francesi a sopprimere il collegamento. Stessa sorte delle merci, per altro: meno 30 per cento di traffico nel decennio scorso, con un ritorno ai volumi del 1993. Anche i calcoli finanziari stridono: il costo delle opere previsto per il prossimo decennio sull’intera rete europea “Ten-T” si aggira sui 500 miliardi, la Commissione europea propone uno stanziamento di 31,7. Il resto a carico dei singoli stati e della loro capacità di attrarre investitori privati. Ma se nel decennio scorso i miliardi investiti dalla Ue sono stati solo otto è quantomeno ottimistico pensare che in tempi di crisi Bruxelles autorizzi finanziamenti quadruplicati. E anche se così fosse al Corridoio Mediterraneo (una sola fra le dieci direttrici prioritarie) spetterebbe al massimo il dieci per cento di quella somma, poco più di tre miliardi. E volendone stanziare il dieci per cento alla Lione-Torino si arriva alla cifra di 300 milioni da spartire tra Italia e Francia a fronte di una spesa prevista di 17 miliardi. Possiamo permettercelo? “In effetti - commenta un esponente di Confindustria Piemonte - i vantaggi veri sono solo sulla prospettiva occupazionale locale e a breve: la Torino-Lione in realtà è un caso Jimby: Just in my backyard!”. Il confine “caldo” tra Francia e Italia. Quassù, sui valichi che uniscono la Maurienne alla val Susa, rimbomba ancora l’eco delle liti e delle battaglie, e lo slogan dei No Tav - “Sarà durà” - fronteggia convinzioni di segno opposto: “L’Europa è pronta, manchiamo solo noi”. Il vento disegna un labirinto dove ci si può perdere fra voci di rabbia, violenze, ma anche grandi previsioni disattese e promesse a lunghissima scadenza (opere che andranno in esercizio fra il 2030 e il 2050). Ottimismo, mal di montagna, grida di uccelli. Ptuiiit. Quasi con sollievo procediamo oltre, su piccole, sporche, lente carrozze locali, verso le colline e poi la piana torinese. Per imbatterci però in un grosso guaio a valle, dove il tratto nazionale della Lione-Torino, che devia sotto la collina morenica di Rivoli verso l’interporto di Orbassano per poi riconnettersi alla Tav per Milano attraverso la “gronda nord”, semplicemente “non si farà mai”. Ce lo assicura un ingegnere della commissione regionale per la valutazione di impatto ambientale: “Il progetto prevede un interramento a quaranta metri di profondità. Il tunnel si infila né più né meno che nella falda idropotabile della città. Attenzione, non in quella irrigua: proprio nell’acqua che va nelle case dei torinesi. Impensabile e illegale”. Alta velocità da bere, argomento da approfondire. Non ora, però, non qui. Veniamo trascinati a più di 300 chilometri orari verso Milano, dove ci intasiamo secondo il modello dello spagnolo Fenoy, per correre ancora un po’ - poco - fino a Treviglio: attraverseremo la pianura padana a passo di tradizione. Stranamente, nel tratto geologicamente meno problematico, da Brescia a Padova, l’alta velocità si farà attendere ancora molto: il progetto è in fase preliminare e Rfi (Rete ferroviaria italiana) nega il proprio contributo, anche se il tratto padano doveva essere completato entro il 2010. Dal 2008 è pronto, però, un segmento di 28 chilometri tra Padova e Mestre, ma non fai in tempo ad aprire la falcata che sei di nuovo in una palude, fra Venezia e Trieste. Qui, per non perdere i soliti fondi spesi in studi di progettazione, a dicembre 2010 fu presentato in fretta e furia un progetto preliminare purchessia: era la “Tav balneare”, che doveva portare bagnanti alle spiagge della “grande Jesolo”, poi bucare le friabili doline del Carso, sfiorare Monfalcone dove Unicredit intendeva finanziare la triplicazione del porto, superare Trieste in galleria ed entrare in Slovenia. Ma poi l’amministratore delegato di Rfi, Moretti, fece notare che la Tav serve le grandi città e non gli jesolotti, i sindaci locali documentarono il disastro ambientale in vista, la città di Trieste rifiutò l’interramento: una Caporetto. In viaggio verso Lubiana. Lasciamo così Trieste al suo destino e ci imbarchiamo mestamente in corriera verso il porto di Koper e lo snodo di Divaca che nessuna ferrovia collegherà mai all’Italia. Perché è qui, sul Quarnaro, che si apre la ferita mortale all’idea platonica di Corridoio. L’ultimo treno dall’Italia verso Lubiana è partito nel dicembre 2011. Dispetti, priorità, ripicche e rappresaglie: fra i litigi italo-sloveni, le piume nazionaliste che si gonfiano sul petto del governo ungherese, la distrazione ucraina in vista degli Europei di calcio, questa diventa ora la storia del nostro viaggio. Sono in molti oggi a pensare che il Corridoio più redditizio non sia sull’asse est-ovest ma su quello Baltico-adriatico che unisce il Mediterraneo alle grandi economie dell’Europa centrale e settentrionale. Il progetto europeo ne prevede lo sbocco sui nostri porti friulani, veneti e di Ravenna. La richiesta slovena di una bretella che vi agganciasse Koper è stata rigettata su insistenza del governo italiano, sotto la pressione del governatore veneto Zaia. Rappresaglia da Lubiana: nessun collegamento fra Trieste e i mercati orientali. Le merci dirette a est possono usare il porto di Koper e il nodo di Divaca. Facciamo quindi visita ai vagoni arrugginiti di Divaca, scavalchiamo Lubiana e poi tappa a Maribor prima di inoltrarci fra le colline ungheresi, in un dedalo di stradine che portano agli snodi “cruciali” (in prospettiva Ten-T) di Zalalovo e Boba: chioschi persi nel paesaggio rurale. Anche qui come nel sud della Spagna l’aria appartiene alle cicogne, le chiome degli alberi alle palle di vischio. Anche qui si parla di trasporto su gomma: “La nostra priorità - dichiara un portavoce del ministero dei Trasporti - non è la ferrovia: i finanziamenti Ue andranno sulle autostrade, in primo luogo il raccordo anulare della capitale e il collegamento fra Miskolc e il confine ucraino”. È un’interpretazione legittima: il Corridoio, nelle intenzioni, è un sistema intermodale che prevede grandi investimenti sull’asfalto, con buona pace di chi ama l’argomento del trasferimento su rotaia. E poi anche qui interessa molto di più il collegamento con il nord, Austria via Gyor, che non con noi. Il profondo est. Ma lasciamo anche questo tema alle analisi logistiche, il nostro compito è sfiorare le facciate elegantemente asburgiche, i caffè e i tram colorati di Miskolc, pazientare in coda alla frontiera dell’Unione e correre in Ucraina. Dopo Uzhgorod, la strada si raggomitola fra le valli dei Carpazi, villaggi di legno e foreste piene di mostri e leggende. Da qualche parte ci sarà pure un trenino, ogni tanto spunta una stazioncina, si intravede un binario, raramente un cavo per la trazione elettrica. Poi il paesaggio si apre alle piane galiziane, ecco le botteghe color cannella di Drohobycz e le memorie dello sterminio che ha cancellato la civiltà degli shtetl askhenaziti, la cultura chassidica che ha influenzato metà del Novecento letterario europeo e americano. Raggiungiamo una delle città più belle d’Europa. Leopoli, fasto imperiale, nido di spie, capitale yiddish. Oggi duecentomila pendolari ogni giorno e un’elegante stazione. Mancano meno di 600 chilometri a Kiev, ma servono 15 ore, e si viaggia di notte. In terza classe i letti sono incolonnati a tre a tre a vista, in cima alla carrozza c’è una stufa con fuoco a legna e un capovagone dal cappello rigido offre il tè in bicchieri con supporto in metallo lavorato (da restituire, purtroppo). La notte è un mercato, si può mangiare insieme, fare affari, chiacchierare. Come all’altro capo d’Europa, nessuno ha mai sentito parlare di corridoi, e poi c’erano gli stadi da fare e qui non c’è un’Unione che finanzia, insomma a poco a poco arriva il sonno. Ci si sveglia a Kiev, stupiti, stropicciati: la stazione alterna il moderno allo stile imperiale russo, l’orizzonte è abolito da barriere di torri a trenta piani che disegnano il futuro cementizio delle metropoli europee, ma i treni a motore, antiquati e colorati, percorrono tratte i cui soli nomi bastano a sognare: Chisinau-Pietroburgo, Odessa-Novgorod, Volgograd-Danzica. La nostra missione è compiuta, possiamo tornare indietro dopo 3.200 chilometri percorsi lungo un corridoio che non c’è. Occhi e memoria ingolfati da frammenti di immagini sfiorate più o meno in corsa. Nelle orecchie grida d’uccelli: ptuiit.
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