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17 gennaio 2012

L’assurda commedia del “Grande Medio Oriente” tra militarizzazione, embarghi e cancelli da custodire
di Pietro Longo
- CISIP

Domenica 16 gennaio il Presidente Barack Obama ha recapitato una lettera alla dirigenza di Tehran, in merito allo scontro mediatico in atto tra i due paesi per il transito attraverso lo stretto di Hormuz. La missiva, il cui contenuto è ancora ignoto, è giunta a destinazione tramite canali diplomatici, e nello specifico grazie alla collaborazione dell’ambasciatore svizzero, al rappresentante iraniano all’ONU ed alla mediazione del presidente iracheno Jalal al-Talabani. 

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, la lettera conterrebbe una serie di avvertimenti relativi alle ripercussioni che la chiusura del passaggio alle petroliere sarebbe in grado di generare. 

Su questo punto il segretario alla Difesa, Leon Panetta, è stato ineludibilmente chiaro: 'non verrà tollerata alcuna azione di disturbo' al flusso di circa 1/3 del greggio mondiale totale.

Per converso, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano si è limitato a notificare soltanto che il governo risponderà alla lettera, se lo riterrà opportuno.

Questo episodio è l’ultimo atto di una pièce che ha avuto inizio tra la fine del 2011 e il nuovo anno, quando si sono manifestate le prime scaramucce circa la presunta chiusura dello stretto di Hormuz.

Poco prima il rappresentante iraniano all’OPEC, Muhammad ‘Ali Khatibi, aveva avvertito i paesi produttori di non aumentare il livello della produzione giornaliera nel caso fossero approvate nuove sanzioni all’export dell’Iran da parte dell’Unione Europea, previste ufficiosamente per il 23 gennaio.

A questa trama principale, se ne affiancano altre minori - ma non per questo meno efficaci: gli Usa, citando proprie fonti di “anonimi responsabili”, ha infatti accusato l’Iran di supportare militarmente il regime siriano, adducendo come prova inconfutabile la scorsa visita del generale Qassim Sulaymani a Damasco.

Parimenti Tehran accusa la Cia di essere responsabile dell’omicidio di Mustafa Ahamadi-Roshan, ingegnere legato al progetto di sviluppo nucleare.

Mentre i due attori protagonisti si scambiano simili 'cortesie', quelli minori compiono le rispettive comparse: Israele, secondo quanto riporta il quotidiano Yedioth Ahronoth, ha ricevuto forti pressioni da parte di Washington circa le conseguenze nefaste che deriverebbero da un attacco sferrato ai siti nucleari iraniani.

Ciò lascia intendere che nelle scorse settimane l’opzione bellica sia stata presa in seria considerazione presso i vertici militari dell’Israel Defence Force.

Per stemperare gli animi, è arrivata tempestiva la notizia della procrastinazione a metà 2012 della consueta esercitazione di difesa congiunta israelo-statunitense.

La motivazione è proprio quella di evitare un’ulteriore escalation contro l’Iran, tanto più che detta esercitazione, chiamata in gergo “drill”, doveva simulare la risposta ad un attacco balistico diretto contro obiettivi sensibili dello Stato ebraico.

La manovra avrebbe comunque comportato l’impiego di migliaia di soldati americani, mobilitati dalle basi circostanti per l’occasione.

Mentre il presidente siriano Bashar al-Assad ha concesso l’amnistia generale a tutti i prigionieri arrestati tra il 15 marzo 2011 e il 15 gennaio 2012, ossia dall’inizio dei disordini ad oggi, e dopo aver acconsentito all’ingresso della missione di monitoraggio della Lega araba, lo Shaykh del Qatar, Hamad bin Jasim bin Jabir Al Thani (durante una conferenza stampa con il segretario di Stato americano Hilary Clinton), ha suggerito di inviare un contingente di interposizione per fermare le violenze.

Lo Shaykh si è detto "deluso" dall’esito della missione di monitoraggio, il cui rapporto finale sarà reso noto soltanto il 19 gennaio prossimo.

Il portavoce dell’organizzazione pan-araba, Nabil al-‘Arabi, ha affermato che l’opzione militare verrà discussa durante il prossimo vertice utile, ma dalla Tunisia s’è già levata fragorosa una voce fermamente contraria.

L’attuale presidente ritiene che l’invio di un contingente in Siria provocherebbe soltanto la destabilizzazione di tutta la regione, coinvolgendo inevitabilmente la Turchia, Hezbollah, l’Iran e Israele.

Questo è il teatro d’azione. Un quadro complesso formato da posizioni avverse e continui cambi di fronte. Ed è nel bel mezzo di questi eventi che si registra un fenomeno strisciante e poco manifesto.

Una variabile per nulla trascurabile, e anzi sintomatica di una malessere pronto a rivelarsi. Si tratta del flusso di armamenti che inonda continuamente i paesi del Golfo persico, gli unici a proposito dei quali si conosce in modo piuttosto esaustivo il budget destinato al warfare.

Prima di approfondire l’argomento appare però doveroso fare una precisazione: cosa rappresenta esattamente lo stretto di Hormuz e perché è così importante?

Si tratta di uno dei più trafficati corridoi marittimi di tutto il globo, una rotta economico-commerciale di importanza fondamentale, a dispetto dei suoi 50 kilometri di ampiezza nel punto di maggiore convergenza delle nazioni che vi si affacciano.

A nord il limite è rappresentato dall’Iran e dalla regione di Bandar Abbas, ove la Repubblica islamica ancora la gran parte della sua flotta e dove sono presenti almeno due obiettivi sensibili.

Qui sorge infatti un impianto di produzione di uranio che, stando a fonti ufficiose, godrebbe di una scorta di circa 100 tonnellate di materiale fossile.

Il sito è collegato inoltre alla centrale nucleare di Bushehr, costruita in collaborazione con ingegneri russi e la prima ad aver raggiunto il grado di massima operatività.

A protezione del sito energetico di Bandar Abbas sorge una base navale militare, la più grande dell’Iran, mentre poco lontano, nella località di Kuhestak all’imboccatura orientale di Hormuz, sarebbe stata installata, già all’epoca della guerra Iran-Iraq, una batteria di missili anti-nave di manifattura cinese.

In ultimo, secondo l’Asia Times, nell’isolotto di Abu Musa, ad ovest della penisola di Musandam e di fronte agli Emirati Arabi Uniti, sorgerebbe un’installazione di un certo numero di missili da crociera.

Questa descrizione, sebbene sicuramente parziale ed imprecisa, permette di concludere con estrema certezza che, da parte iraniana, il 'cancello di Hormuz' è ampiamente presidiato.

Ogni stretto possiede, in genere, almeno due gate-keepers, e nel caso in esame quelli ufficiali includono l’Oman e gli Emirati Arabi Uniti.

Il Sultanato ibadita controlla il corridoio tramite la sopraccitata exclave di Musandam, geograficamente priva di continuità rispetto al resto del territorio nazionale.

Gli Emirati invece confinano a sud-ovest con la medesima penisola omanita e pertanto non riescono ad influenzare il passaggio, dal momento che ospitano basi militari straniere.

A circa un’ora di distanza da Abu Dhabi sorge la base di Al Dhafra, sfruttata nella sua compagine aerea dalla US Air Force e dalla francese Armée de l’Air.

Dal punto di vista navale invece a Port Zayed, sempre nei pressi della capitale degli Emirati, staziona una flotta francese identificata dall’acronimo ALINDIEN, la cui competenza comprende tutto l’Oceano indiano, ovvero entrambi i lati dello stretto di Hormuz.

La base aerea di al-‘Udayd in Qatar, hub di velivoli australiani, britannici e qatarioti, la 5° Flotta statunitense ancorata in Bahrein e ben cinque siti militari in Arabia Saudita sfruttati in varia misura dall’esercito statunitense, completano il quadro della militarizzazione generale della Penisola.

Da quanto riportato si evince come la presenza militare sia considerata, al momento, l’unico strumento in grado di garantire il mantenimento della libera circolazione attraverso i mari.

Ma perché questa esigenza?

Si è anticipato che attraverso Hormuz transita il 40% del greggio mondiale e dunque la stabilità di quell’area è di fondamentale importanza sia per garantire questo flusso ininterrotto, sia come diretta conseguenza al fine di mantenerne invariato il prezzo.

Nelle scorse settimane, il ministro degli Esteri Francese, Alain Juppé, ha supportato la linea dura americana contro l’Iran invocando l’embargo europeo al petrolio persiano, pur di mantenere inalterate le rotte.

Se si dovesse percorrere questa strada, ciò andrebbe a ledere gli interessi di Italia, Spagna e Grecia ovvero di tre dei paesi dell’eurozona particolarmente vessati dalla crisi del debito.

I 27 leader dell’UE si incontreranno il 23 gennaio prossimo e saranno chiamati a decidere il timing di un nuovo giro di sanzioni stringenti: entro tre mesi come auspicano Francia e Germania, o tra sei come propongono proprio Italia, Spagna e Grecia.

A questo punto è possibile tornare alla main issue dell’escalation militare in atto. Quis custodiet custodes?

La risposta si può ricavare dall’analisi dei dati sulla compravendita di armamenti statunitensi, compilata dalla Defense security cooperation agency per conto del dipartimento alla Difesa.

Tra il 2003 ed il 2006 l’Arabia Saudita ha acquistato materiale militare per un valore di 4,2 miliardi di dollari, figurando al secondo posto dopo l’Egitto di poco superiore (4,5 miliardi).

Nella stessa scansione temporale, gli Emirati Arabi hanno speso 1,4 miliardi di dollari, seguendo Israele (1,6 miliardi), che negli anni ha intrapreso un processo di incremento della propria industria bellica, raggiungendo una completa indipendenza.

Nel triennio successivo, cioè tra il 2007 ed il 2010, l’Arabia Saudita ha trasformato i propri acquisti in 13,8 miliardi di dollari e gli Emirati in 10,4 miliardi, scalzando gli altri paesi.

Infine, nel solo 2010, Riyad ha comprato armamenti per 1,5 miliardi di dollari e risale ad appena due settimane fa la notizia del raggiunto accordo di acquisto di ben 84 aerei da combattimento prodotti negli Stati Uniti.

Il regno dei Sa’ud ha raggiunto pertanto il terzo posto nella classifica della flotta area più grande del Vicino Oriente, dopo Iran e Israele, grazie ai circa 280 aerei di contro ai 312 dell’Iran, ai 184 degli Emirati Arabi Uniti ed ai 424 posseduti da Israele.

A ben vedere i “custodi della stabilità” geo-economica dei flussi petroliferi e, più in generale, di tutta l’area sono a loro volta custoditi da un pericoloso processo di securizzazione legittimato, secondo il loro punto di vista, dal tentativo di nuclearizzazione dell’Iran e della crescente egemonia che Tehran minaccerebbe di esercitare. 

Quando il rappresentante iraniano all’OPEC, Muhammad ‘Ali Khatibi, ha messo in guardia i paesi produttori, Arabia Saudita ed Emirati in testa, circa i risvolti dell’eventuale aumento della produzione, intendeva suggerire di evitare una politica di pedissequa sottomissione al volere del cliente: aumentare i barili di petrolio prodotti, nel caso di embargo alla produzione iraniana, significa mantenere la medesima quantità di greggio immesso nel mercato e dunque evitare oscillazioni di prezzo.

Va da sé che l’unico attore in grado di perseguire questa politica sia l’Arabia Saudita, che infatti è stata subito corteggiata dalla Cina, non appena è iniziata a circolare l’idea di un possibile stop alla produzione persiana.

Il braccio di ferro tra USA e Iran è forse più retorica che altro, ma l’immissione nel quadrante di una grande quantità di armi e la crisi finanziaria dell’Europa sono dati di fatto.

A quest’ultimo elemento inoltre rischia di associarsi anche una recessione economica, ovvero un abbassamento dei livelli di produttività, nella malaugurata evenienza di un’impennata del prezzo del petrolio.

L’ex presidente dell’OPEC, l’algerino Shakib Khalil, ha già messo in guarda da un possibile aumento del petrolio a 200 dollari al barile: eliminare dal mercato il prodotto dell’Iran implica trovare uno o più sostituti che, quand’anche venissero rinvenuti, alla lunga non riuscirebbero a garantire gli stessi livelli di produzione.

Per tali ragioni, prima di andare in scena, sarà oltremodo necessario che ciascun attore, dai protagonisti alle semplici controfigure, conosca alla lettera il ruolo da recitare, scongiurando quanto di imprevedibile il copione potrebbe ancora riservare. 
 

 

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