Israele va alla guerra L’escalation cui il governo israeliano dell’ultra-destra di Benjamin Netanyahu (Primo Ministro) e Avigdor Lieberman (Ministro degli Esteri) sta dando corso, in maniera feroce ed aggressiva, contro Gaza e la sua popolazione, sfugge all’attenzione dell’opinione pubblica e, per molti aspetti, persino del movimento pacifista, esattamente come sfuggono presupposto e sfondo sulla base dei quali tale escalation viene alimentata e persino, da qualche parte, “giustificata”. Alcuni scenari. Scenario 1. Forse il meno importante dal punto di vista strategico, ma forse il più condizionante dal punto di vista politico (e militare). È appena dello scorso ottobre l’annuncio dell’unificazione dei due partiti egemoni della compagine governativa: il Likud (partito - storicamente laico - di destra) di Netanyahu e “Israel Beitenu” - letteralmente “Israele Nostra Casa” - di Lieberman, partito dell’ultra-destra nazionalista e segregazionista, le cui posizioni, non solo in merito alla “sicurezza” di Israele (è uno dei massimi assertori dell’aggressione militare contro l’Iran e il suo programma nucleare), ma soprattutto in relazione alla auto-determinazione palestinese (è lo stesso Lieberman ad avere affermato di essere pronto a “confinare” i palestinesi ai margini delle colonie israeliane e a “rovesciare” il governo di Abu Mazen in caso di riconoscimento palestinese alle Nazioni Unite) sono note. Un blocco nazionalista e reazionario, dunque, accreditato di un consenso vasto nell’elettorato israeliano (contro un Labour in difficile ripresa) e che intende fare le “prove generali” proprio sul terreno che gli è più congeniale: sicurezza, occupazione e guerra. Scenario 2. Per un’elezione che viene, un’altra elezione se n’è andata. E il suo esito non è indifferente ai fini delle politiche di guerra di Israele e dello scenario strategico del M. Oriente. Se Mitt Romney era accreditato come il migliore amico di Israele nella campagna presidenziale statunitense, la conferma di Barack Obama (anche per il modo com’è avvenuta, secondo presidente democratico del dopoguerra, dopo Bill Clinton, a conquistare il secondo mandato, avanti sia tra i grandi elettori sia nel voto popolare) ha suonato come un “campanello d’allarme” per molti circoli della destra israeliana, sia politici e diplomatici, sia strategici e militari. Un allarme basato tuttavia molto più su una sorta di “immaginazione politica” che non sulla vera e propria realtà di fatto: al di là di considerare la politica di Obama troppo “morbida” nei confronti dell’Iran o troppo “aperta” nei confronti del mondo arabo in generale, non vi sarebbe motivo alcuno di dubitare della granitica alleanza tra gli Stati Uniti e Israele (se non altro, per i “fatti concreti”, dalla estensione del prestito quadriennale degli USA verso Israele pari a quattro miliardi di dollari di qui al 2016 fino alla recente mega-esercitazione militare congiunta anti-iraniana nel Neghev). Il giudizio negativo su Obama è in realtà il giudizio su Obama che hanno i coloni, quelli degli insediamenti (colonie) illegali in terra palestinese, presso i quali l’indice di gradimento nei confronti del primo presidente nero della storia USA non supera il 20%. Un fatto in sé significativo, se si vuole, del peso politico e della capacità di condizionamento che il movimento dei coloni e dell’ultra-destra esercitano oggi sulla politica israeliana. Scenario 3. La guerra è in corso. E’ in corso una guerra diplomatica che va avanti ormai da anni da parte di Israele nei confronti dell’Iran, a suon di mobilitazione dell’opinione pubblica e dei circuiti diplomatici e di pressioni per una politica più aggressiva della comunità internazionale nei confronti di Teheran. Ma su quel fronte è in corso anche una vera e propria “guerra silenziosa” fatta di intelligence, spie, sabotaggi, assassini e sparizioni mirati, soprattutto ai danni di tecnici e ingegneri iraniani, di cui non è possibile risalire con certezza agli esecutori ma su cui si stende davvero lunga l’ombra del Mossad (e della CIA), il potente servizio segreto israeliano. Ed è contemporaneamente in corso una guerra “sul campo” presso le troppo facilmente dimenticate Alture del Golan, che Israele occupa illegalmente in territorio siriano dalla guerra del Kippur del 1973 e dove negli ultimi giorni Israele ha colpito direttamente elementi dell’artiglieria siriana impegnati in quella che è la guerra civile e per procura in corso in Siria. Ma la madre di tutte le questioni (e le controversie) in M. Oriente resta sempre il conflitto israelo-palestinese o, per dire meglio, l’occupazione e la guerra di Israele nei confronti dei Territori Palestinesi, una occupazione-guerra che va avanti per lo meno dal 1948 e che registra periodiche battute d’arresto ed escalation militari. Come quella, annunciata dallo stesso Netanyahu ed in corso negli ultimi giorni: nel giro di poche ore Israele ha già compiuto decine di raid contro Gaza, colpendo centinaia di obiettivi, in massima parte civili, e provocando in brevissimo tempo oltre una decina di morti (e il bilancio è destinato rapidamente a crescere già nelle prossime ore), ieri (14 novembre) centrando infine l’auto su cui viaggiava Ahmed al Jabari, comandante delle brigate al Qassam, uccidendolo. L’escalation minaccia di precipitare in una “guerra aperta” contro Gaza, ennesima guerra di uno dei più potenti apparati militari al mondo (quello di Israele) contro la Striscia, cui Hamas risponde con i deprecabili razzi verso il Sud di Israele e la minaccia di ancor più deprecabili attentati terroristici in territorio israeliano. La diplomazia tace e le Nazioni Unite sono inerti. Il prossimo 29 Novembre Abu Mazen proverà a collocare un altro tassello nella “intifada diplomatica” dell’Autorità Palestinese chiedendo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il riconoscimento ufficiale della Palestina come Paese osservatore. Israele ha già minacciato (e concretizzato) fuoco e fiamme. Serve davvero uno scatto di lucidità e responsabilità: oggi più che mai la pace è impossibile senza l’auto-determinazione palestinese.
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