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Crisi e guerra: contro la Cina, la geopolitica del caos
«È proprio vero il detto che chi non conosce la storia è condannato a ripeterla. Sembra d’assistere ad una riedizione degli eventi post-1929. E vogliamo dirla tutta? Il 1929 sfociò alfine nella Seconda Guerra Mondiale». Parola di Daniele Scalea, condirettore della rivista “Geopolitica”, che lancia uno sguardo ai pesanti rivolgimenti che hanno segnato il 2011: la Cina che cresce, l’Europa che vacilla, gli Usa che destabilizzano le aree-cerniera come l’Africa e il Mediterraneo, senza però un disegno chiaro: è la “geopolitica del caos” che, dalla Libia alla Siria, punta a generare conflitti regionali, per rallentare l’ascesa di Pechino e prendere tempo, in attesa che il petrolio del Medio Oriente diventi sempre meno strategico. Punto di partenza dell’analisi, il panorama arabo degenerato in «regimi piccolo-nazionali, autoreferenziali e cleptocratici» che il 2011 ha spazzato via: da una parte sotto la spinta islamista, dall’altra secondo lo schema pilotato delle “rivoluzioni colorate”, che vede all’opera sedicenti Ong statunitensi capeggiate dal National Endowment for Democracy e vere e proprie agenzie federali di Washington, come Usaid. Ma attenzione, avverte Scalea: l’evidente ruolo perturbatore di Washington nella regione è soprattutto un segnale di debolezza, «perché destabilizza una regione prima di ridurne il peso nella propria equazione strategica: non c’è la forza di lasciare un “Grande Medio Oriente” stabile e rigidamente filo-atlantico», e perciò si ricorre al caos, puntando allo scontro tra sunniti e sciiti, col reciproco bilanciamento tra Turchia, Iran, Arabia Saudita ed Egitto, nonostante l’inquietudine di Israele. Ipotesi epocale: il probabile declino del peso strategico di Nordafrica e Vicino Oriente nei prossimi decenni. Negli Usa, spiega Scalea, si stanno trovando grosse riserve di gas e petrolio di scisto: sono ancora difficili da sfruttare appieno, ma i progressi tecnologici potrebbero garantire al paese la piena autosufficienza energetica. Tanto più che pure le riserve d’idrocarburi del vicino e fidato Canada sono costantemente riviste al rialzo: l’Artico potrebbe divenire un nuovo perno geostrategico. Declassare il Medio Oriente permette inoltre di ridislocare la potenza imperiale verso oriente, in funzione anti-cinese: Washington spera di contenere l’irresistibile ascesa di Pechino controllando i “choke points” come lo Stretto di Malacca, da cui giungono i vitali approvvigionamenti per il gigante asiatico, appoggiandosi all’India ed al Giappone come contrappesi locali alla potenza cinese. Ma il contenimento della Cina passa anche per l’Africa, avverte “Geopolitica”: negli ultimi anni, Pechino è stata protagonista di una profonda e capillare penetrazione economica nel continente nero, a cui la Nato ha risposto con l’istituzione d’un comando militare ad hoc, l’Africom, e con una politica aggressiva. «L’attacco alla Libia, grande sponsor dell’Unione Africana, va guardato nel contesto del contemporaneo intervento armato francese in Costa d’Avorio, della secessione del Sud Sudan dalla Khartum filo-cinese, e dei bombardamenti dei droni statunitensi in Somalia. Gli atlantici vogliono riprendersi l’Africa con la forza». Perché la Cina fa così paura? Militarmente è ancora indietro rispetto agli Usa, ma sta facendo passi da gigante: è riuscita a sviluppare una sua portaerei ed un suo aereo stealth. Ma è soprattutto economicamente che Pechino impaurisce Washington: riguardo al Pil, nell’ultimo decennio Pechino ha “rimontato” Washington recuperando 2500 miliardi; per eguagliare il Pil americano ne restano 1500, e secondo l’economista Attilio Folliero è questione di attendere appena 5-6 anni per assistere al “sorpasso” cinese. Nel frattempo, gli Usa “regionalizzano” i conflitti: pericolosa tendenza già affiorata dopo la grande crisi del 1929, come eredità dell’imperialismo coloniale. Oggi come allora, ci sono paesi che sostengono pubblicamente l’espansione dell’economia (Cina, Usa, Germania) e altri come l’area critica dell’Eurozona che scelgono invece politiche depressive: lo Stato non interviene più per dare spinta e liquidità all’economia, ma solo per prelevare liquidità, tassando i produttori per redistribuire il denaro ai grandi rentier, banche e fondi. «Nel post-1929 avverte Scalea questa politica miope e corporativistica portò alla grande depressione». Se il 2012 si vede dal mattino, ci risiamo: finirà di nuovo nel peggiore dei modi, magari con un olocausto nucleare?
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