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6 giugno 2012

Interviste di primavera – 2
di Christian Elia

Quanto resta di una primavera? Il dibattito, ormai, è sempre più acceso. I ragazzi pronti a morire in Avenue Bourghiba a Tunisi e in piazza Tahrir al Cairo sono stati solo il grimaldello per il trionfo dell’islamismo politico? In Yemen e in Bahrein, il metro dei diritti umani applicato altrove dall’Occidente non vale? In Libia e in Siria si assiste a un’evoluzione bellicosa e violenta delle istanze popolari? E il mensile online lo ha chiesto a una serie di esperti. La seconda intervista è quella a François Burgat, politologo francese, direttore di ricerca del Centre national de la recherche scientifique, dal 2008 direttore dell’Institut francais di Proche-Orient.

Dal Sidi Bouzid a Damasco, lungo un anno e mezzo. Che bilancio si può trarre delle ribellioni nel mondo arabo?

È difficile tirare delle conclusioni definitive all’alba di un processo che si preannuncia lungo e i cui itinerari nazionali saranno assai differenti l’uno dall’altro. Possiamo tuttavia affermare che sulla lunga strada che li porterà a uscire dall’era dell’autoritarismo, molti tra i maggiori Paesi arabi hanno appena superato una tappa essenziale. Parlando in generale, inoltre, tale avvenimento costituisce una bella pagina per la storia di questa regione geografica.

Ritiene che rispetto a Tunisia ed Egitto esistano molte differenze con altre situazioni, come la Libia e la Siria, o lo Yemen, oppure ritiene che le motivazioni siano le stesse?

Le ragioni per le quali i Paesi sono insorti sono molto simili. Il fulcro del malcontento popolare era lo stesso per tutti, è cioè da attribuirsi all’autoritarismo di élite inamovibili, all’esclusione dalla scena di reali opposizioni politiche a favore invece di opposizioni “addomesticate”, alla mancanza di libertà d’espressione e di associazione, alla repressione (in ogni ambito, arrivando anche all’uso della tortura) che aveva prevalso sulla rappresentanza, al clientelismo e alla corruzione. Una volta messo in luce il denominatore comune, bisogna dire che le peculiarità di ciascun paese hanno preso il sopravvento: il rapporto dell’esercito al potere o, più generalmente, all’interno del tessuto politico ed economico (molto differente dalla Tunisia, alla Siria o all’Egitto), la persistenza o l’assenza di divisioni etniche e confessionali, il ruolo assai diversificato della “comunità internazionale”, ecc…

In molti hanno tentato di interpretare queste sommosse. Ritiene che assistiamo a un fenomeno totalmente interno, o ritiene che ci sia una qualche regia esterna?

Per prima cosa, ritengo che ci troviamo di fronte a fenomeni interni. Ciò non significa che l’effetto del contagio mediatico e gli interventi esterni non abbiano influenzato gli eventi. Ma senza il fulcro di un profondo malcontento popolare interno non sarebbe accaduto nulla. In alcuni Paesi (quelli del Golfo, per la precisione) dove questo malcontento non era ancorato in maniera altrettanto solida, non è nato alcun movimento significativo. In secondo luogo, l’idea più volte ripresa, non solo dai regimi minacciati, di un complotto o di manipolazioni da parte di un agente esterno (americano o franco-britannico, nel caso della Siria) non è a mio parere credibile.

Al centro di polemiche è finito il ruolo di al-Jazeera e del Qatar. E’ nata una nuova potenza, che ha magari preso il posto dell’Arabia Saudita come partner privilegiato di Europa e Ue?

La diplomazia del Qatar costituisce senza ombra di dubbio una novità nel puzzle dell’area del Vicino Oriente ed è diventata un anello fondamentale della catena nelle relazioni euro-arabe. Diplomazia non priva di ambiguità, poiché il suo unico obiettivo chiaramente attestato di “far amare il Qatar” (costi quel che costi) la porta a fare delle concessioni etiche e politiche. Nel caso della Primavera Araba, i suoi alleati e l’universo delle sue simpatie si possono più o meno identificare con le opposizioni vicine alla sensibilità dei Fratelli Musulmani. Per quanto riguarda questo aspetto, il Qatar si differenzia dall’Arabia Saudita, sua concorrente dell’area ed eterna rivale, le cui leve d’azione sono i più tradizionali movimenti salafiti a lungo sostenuti e strumentalizzati, soprattutto perché non avanzavano istanze di opposizione all’interno del regno. Allo stesso tempo, il Qatar e l’Arabia danno un’identica lettura della crisi siriana (o di quella del Bahrein). Questa posizione è almeno in parte condizionata dal fatto che entrambi i Paesi hanno come obiettivo l’indebolimento dell’alleato iraniano della Siria o, nel caso del Bahrein, sono riluttanti al passaggio del potere nelle mani di una maggioranza sciita. In Europa, la azione diplomatica è ancor più paradossale se consideriamo che il Qatar è alleato prossimo del governo francese malgrado le radicali divergenze che separano la “politica musulmana” di quest’ultimo dalla mentalità dell’Emirato, così com’è emersa, in particolare, dai toni del canale Al Jazeera. Il divieto imposto a Qaradawi, personalità trainante della rete, di partecipare a un raduno dell’Unione delle Organizzazioni Islamiche di Francia è un esempio calzante dei limiti di quest’alleanza.

Il Bahrein, rispetto ad altre insurrezioni, non ha trovato lo stesso sostegno politico in Europa e negli Stati Uniti. Perché? A suo avviso c’entra in qualche modo la componente sciita e la vicinanza dei rivoltosi con l’Iran?

Il Bahrein è certo la dimostrazione perfetta di come il capovolgimento che ha condotto le diplomazie internazionali a sostenere le rivolte arabe è stato più di natura utilitaristica e tattica che umanitaria. L’appoggio della rivolta del Barhein avrebbe costituito un casus belli con l’Arabia Saudita, Stato che non risponde tuttavia ad alcun criterio di quella democrazia che noi abbiamo sostenuto, improvvisamente e in modo così spontaneo, in Libia o in Siria.

Il conflitto israelo – palestinese resta fermo al palo. In quale modo il cambio avvenuto in tanti paesi arabi potrebbe cambiare la situazione in Palestina?

Il regime siriano vuole vantare il monopolio del nazionalismo arabo e dell’opposizione alle ambizioni territoriali dello stato Ebraico. Cerca di avvalorare la tesi che le forze che succederanno al potere potrebbero rivelarsi potenziali alleati di Israele. Anche se il Presidente del CNL ha rilasciato alcune dichiarazioni a tale proposito (elogiando il disimpegno nei confronti di Hezbollah, dell’Iran, ma anche di Hamas), da parte mia non c’è alcuna ragione per pensare che le forze politiche che emergeranno dalle urne arabe “post-Primavera” potrebbero avere un atteggiamento accondiscendente verso le politiche di Tel Aviv in quell’area, anzi, il contrario. L’evoluzione della diplomazia egiziana e di quella tunisina tendono peraltro a confermare questa ipotesi.

Ritiene che, almeno a livello di slogan e simboli, esiste una vicinanza tra i movimenti arabi e i movimenti Occupy in Usa e Ue?

No. Sarei molto prudente nell’avallare una lettura analogica tra questi movimenti, che trovano espressione in un ambiente politico e in un contesto storico radicalmente diverso.

La crisi siriana, qualsiasi sia la fine, è l’ultima tappa di un cambiamento, oppure è una partita chiave che determinerà gli equilibri futuri della regione e magari innescherà altre rivolte?

In quest’area troviamo due diverse dinamiche: la fine dell’autoritarismo negli Stati arabi e il conflitto arabo-israeliano. In realtà, le accomuna un aspetto. In entrambi i casi, sono il trionfo del “hard power” sulle esigenze della giustizia, la profonda disfunzionalità dei meccanismi di rappresentanza e di distribuzione del potere a fabbricare il radicalismo, alimentando tensioni e crisi. Per molti aspetti le società arabe e la comunità internazionale devono dunque superare la medesima prova: la fine dell’autoritarismo e dell’unilateralismo che sono da troppo tempo sostituiti alla regolazione istituzionale delle tensioni nazionali, regionali e internazionali.

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