http://www.eilmensile.it Christian Elia intervista Bernard Badie su quanto resta di una primavera Quanto resta di una primavera? Il dibattito, ormai, è sempre più acceso. I ragazzi pronti a morire in Avenue Bourghiba a Tunisi e in piazza Tahrir al Cairo sono stati solo il grimaldello per il trionfo dell’islamismo politico? In Yemen e in Bahrein, il metro dei diritti umani applicato altrove dall’Occidente non vale? In Libia e in Siria si assiste a un’evoluzione bellicosa e violenta delle istanze popolari? E il mensile online lo ha chiesto a una serie di esperti. La prima intervista è quella a Bernard Badie, politologo francese, specializzato in relazioni internazionali, docente all’Institut d’études politiques di Parigi e ricercatore presso il Centre d’études et de recherches internationales. Da Sidi Bouzid a Damasco. E’ possibile tracciare un bilancio delle rivolte arabe? Quali le prospettive? Io credo che quello che è accaduto nel mondo arabo vada considerato la prima vera rivoluzione post-leninista. La prima organizzata non da una leadership politica o ideologica ma da un movimento sociale. Se guardiamo a tutto il secolo scorso, questo movimento molto più popolare che ideologico è davvero una novità assoluta, vicina alla visione rivoluzionaria leninista. Le conseguenze di questa sollevazione diventano il punto chiave: questo movimento popolare è capace di generare un ordine politico nuovo? Se questa rivoluzione non sarà capace di diventare un modello politico, ricorderemo questa ‘primavera araba’ come il 1968 in Europa e nel mondo. Questa trasformazione, per ora, non si vede. La rivolta ha portato, in Egitto e in Tunisia, alla fine della dittatura e alle elezioni, dove però i protagonisti sono stati partiti politici che non hanno rappresentato il motore della sollevazione. Proprio la Tunisia, in questo senso, è un esempio chiaro della discrepanza tra la piazza e il ruolo dei partiti religiosi. In Egitto c’è la stessa distanza tra i Fratelli musulmani e i militanti di piazza Tahrir. La questione adesso è cancellare questa distanza tra i movimenti sociali e l’evoluzione politica della ribellione, non solo a livello interno. Anche lo sguardo internazionale verso quello che è accaduto nel mondo arabo deve essere capace di includere questi movimenti sociali tra le chiavi interpretative di quella regione, in un’ottica globalizzata che comprenda istanze sociali nuove e attori politici tradizionali. In un primo momento, il sistema internazionale è stato sorpreso da quello che accadeva, guardando ai moti con stupore. In Tunisia la dittatura era accettata dalla diplomazia internazionale, specialmente quella occidentale. Anche quest’ultima deve adattarsi a questa trasformazione, accettandola come legittima. In questo gli Usa, ad esempio, sono stati più pronti della Francia a cogliere questo cambiamento, ma restano delle resistenze che si sono palesate in Libia, dove si è voluto controllare il processo rivoluzionario, appropriandosene, per adattarlo alla visione della diplomazia internazionale. La Libia, rispetto alla predisposizione della politica internazionale verso le rivolte nel mondo arabo, ha inaugurato una fase nuova, che osserviamo anche in Siria. Anche se in questo caso l’appropriazione della rivolta siriana è molto più difficile di quella in Libia, al punto che in Siria la diplomazia internazionale appare in imbarazzo e quasi paralizzata. Resta che con questa rivoluzione il mondo arabo è entrato nel processo di globalizzazione, ma le cancellerie occidentali devono dimostrare di essere pronte ad accettare questo evento rivoluzionario. Emergono, al fianco dei nuovi governi, anche nuovi attori della politica regionale. Il Qatar, in primis, che secondo alcuni si giova del più potente megafono del mondo: al-Jazeera. Cosa pensa del ruolo e dell’effetto qatariota nei sollevamenti popolari? Due domande differenti. La prima riguarda al-Jazeera in particolare e il ruolo dei media in generale nelle rivolte arabe. Credo che questo processo rivoluzionario riguardi, prima di tutto, i social media. Questo movimento sociale è indissolubilmente legato alla sua capacità di restare connesso ai social network. Facebook e twitter hanno giocato un ruolo determinante nello strutturare questo disagio, dandogli una rete di riferimento e condivisione, come al-Jazeera gli ha dato una visibilità mondiale. E bisogna distinguere questo processo dell’informazione da quello politico. Al-Jazeera non è il Qatar. All’interno di questo processo globale e transnazionale, agiscono i poteri politici particolari. Il mondo arabo è un’interconnessione di questi poteri e il Qatar, adesso, è uno di questi. L’Egitto, ad esempio, durante l’era di Nasser, ha svolto un ruolo determinante nel mondo arabo. L’Iraq, durante l’era di Saddam, ne ha svolto un altro. Il collasso di queste due realtà in tempi diversi e la crisi della Siria in questo momento hanno consegnato una sorta di priorità all’Arabia Saudita. E Riad pretende una leadership che, non facendo parte l’Iran del mondo arabo, ha un’unica seria e credibile controparte: il Qatar. Nessun altro. Per le ottime relazioni del Qatar con l’Occidente, per la sua posizione strategica nel Golfo Persico e per le sue risorse finanziarie. E per il vantaggio dato dal fatto che il Qatar si avvicina molto di più alla visione del mondo dei Fratelli Musulmani dell’Arabia Saudita, più vicina ai salafiti. L’Occidente e i nuovi assetti nati dalle rivolte hanno, in questo momento, maggiore prossimità con il Qatar che con l’Arabia Saudita. Questi due pesi competono e la questione è se questi due paesi hanno la capacità di gestire un’egemonia nel mondo arabo. Cosa manca alla ribellione in Bahrein per appassionare i media e la politica internazionale? Quella del Bahrein è una questione davvero imbarazzante. Questo Paese è in una posizione strategica nel Golfo Persico, oltre a essere per certi versi unico, considerato che la maggioranza della popolazione è sciita e questo crea un rapporto speciale con l’Iran. D’altra parte, nel Bahrein, è stata praticata una brutale repressione delle istanze sociali, con un piano preordinato del governo. L’unione di questi due elementi ha fatto si che le diplomazie occidentali non hanno potuto reagire e condannare quello che è accaduto. Questa è una grande contraddizione rispetto alle posizioni assunte sulla Libia prima e sulla Siria adesso, salvo ammettere che esistono due differenti standard di reazione di fronte ai medesimi problemi. In attesa di poter trarre conclusioni, quanto la primavera araba ha finito per influenzare movimenti di protesta anche in Occidente? Abbiamo assistito a un fenomeno davvero interessante. A Bologna ho trovato una manifestazione nella quale un gruppo di ragazzi indignati avevano chiamato la loro piazza Tahrir. Questo è solo uno dei mille riferimenti ai moti dell’altra parte del Mediterraneo. Una contaminazione che denuncia la distanza sempre più grande tra le istanze sociali e la politica, una disaffezione per le istituzioni dell’ordine costituito, una lontananza tra chi decide e i cittadini. La stessa matrice delle rivolte arabe.
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