Fonte: Osservatorio Iraq Palestina e Resistenza popolare, parla un attivista israeliano: "servono valori più che strategie" Uno dei punti centrali del dibattito sulla resistenza “popolare” o “nonviolenta” palestinese è la strategia. Se Linah Alsaafin sostiene che “le manifestazioni non sono costruite attorno ad una strategia di mobilitazione o su un obiettivo concreto, e non includono la maggioranza della popolazione”, Maath Musleh risponde che “non ci sono alternative”. Credo che entrambe le affermazioni siano corrette. Però dovremmo sottolinearne soprattutto il carattere ‘popolare’ prima ancora che ‘nonviolento’. Primo, perché così mettiamo l’accento su una lotta che viene dal popolo molto più che dalle formazioni politiche; e secondo perché anche se si tratta effettivamente di una lotta ‘nonviolenta’ questo termine è stato più volte distorto da chi è al potere, cosa di cui Linah fa cenno nel suo pezzo. Usare l’etichetta di ‘nonviolenza’ spesso anche se non sempre può fare scivolare in quella retorica utilizzata dai potenti, sia che si tratti di Stati Uniti, dell'Unione Europea o degli israeliani. Tutti loro infatti insistono molto sull’idea che i palestinesi debbano rinunciare alla lotta armata come precondizione per chi è al potere di porre fine ai loro crimini. In realtà, dovrebbe essere chiesto esattamente il contrario. Fino a quando Israele i suoi sostenitori continueranno a usare lo strumento del terrore contro la popolazione civile palestinese, legalmente non possiamo condannare chi lotta per la propria liberazione solo perché lo fa. E non dovremmo farlo neanche moralmente. Detto questo, si da il caso che la lotta popolare sia anche nonviolenta, e tanto gli internazionali quanto gli israeliani sono fortunati ad avere l’opportunità di prenderne parte e partecipare pienamente. Io ne sono molto grato. Sul lancio delle pietre: capita ogni tanto che i ragazzi ne tirino, e quasi mai prima che i soldati israeliani, armati, abbiano usato le loro armi contro i manifestanti civili. Semplicemente, non c’è nessun paragone possibile tra la quarta potenza nucleare al mondo e un gruppo di ragazzi con la fionda. Che la gente faccia o meno il confronto con Davide e Golia, non c’è assolutamente spazio per alcuna apologia: i soldati armati che invadono il villaggio di Bil’in o la città di Basrah dovrebbero aspettarsi, come minimo, una forma simbolica di resistenza con le fionde. Piuttosto, i miei compagni palestinesi dovrebbero seriamente chiedersi su che piano sono disposti a condurre una lotta comune, sempre ricordando che durante le manifestazioni condividiamo il peso della repressione israeliana, ma dopo il tramonto del sole sono loro a soffrire le conseguenze di un brutale regime militare che sta cercando di annullare qualsiasi forma di dissenso. Rispetto all’agenda politica, Linah scrive che “non esiste niente di simile a una lotta comune tra palestinesi e israeliani”. Gli attivisti israeliani insomma non dovrebbero mai assumere ruoli di decision-making e lavorare piuttosto per cambiare la loro società. Maath Musleh parla invece di una lotta comune contro il sionismo. Prima di procedere con una qualsiasi forma di critica o di valutazione di questa lotta, è fondamentale comprendere che in questa battaglia per i diritti dei palestinesi io faccio parte di un gruppo di ultra-privilegiati, e che agisco contro un sistema che ha nel suo cuore più profondo il principio sionista di differenziazione: tramandare privilegi su base etnica (non necessariamente religiosa) agli ebrei, attraverso la privazione dei diritti fondamentali e della libertà di coloro che non sono etnicamente ebrei. Questo sistema, che rientra nella definizione di crimine di apartheid, esiste da molto prima dell’occupazione del 1967, e fino a quando continuerà a esistere la mia unica interazione possibile con coloro che sono privati dei diritti può esistere solo nel tentativo di abbatterlo, questo sistema. Tuttavia, la nostra lotta comune può essere interpretata in modi diversi, a seconda del genere di israeliani che partecipano e degli obiettivi stabiliti dai palestinesi. Maath chiede ad esempio che noi, come anti-sionisti che lottiamo contro il carattere di supremazia razziale dello Stato, ci ridefiniamo. Io tendo a pensare che non siano necessarie definizioni, ma piuttosto una chiara comprensione di chi sta lottando e per cosa. Alcuni israeliani sostengono la fine dell’occupazione del ’67, ma sono molto diversi da quei sionisti che difendono il concetto della supremazia etnica e sono terrorizzati dall’idea di uno stato pieno di arabi, così come dagli anti-sionisti che detestano il concetto di apartheid e tutto ciò che il sionismo sostiene. Ogni membro della cosiddetta “sinistra sionista”, senza eccezioni, vorrebbe vedere la fine dell’occupazione del '67 purché l’entità ebraica che impone la propria supremazia all’interno del territorio del ’48 mantenga intatta la propria legittimità e continui a prosperare. Per il bene della lotta contro l’occupazione in Cisgiordania i palestinesi potrebbero invitare queste persone a seguirli, mettendoli di fronte a non pochi dilemmi considerando la debolezza del loro terreno comune: questo “sionismo delle buone intenzioni” sostiene o si oppone all’esercito israeliano? Rivendica o rifiuta i diritti dei rifugiati palestinesi la maggioranza della popolazione palestinese? E cosa ne pensano di un futuro stato in comune? In un paese fondato su pulizia etnica e segregazione razziale, la cui principale preoccupazione sino a oggi è stata il mantenimento di una maggioranza ebraica creata artificialmente, la sola risposta da dare a questo genere di ragionamento è negarlo nella sua totalità. Anche per i palestinesi, che subiscono le conseguenze dirette di questa mentalità, non avrebbe molto senso combattere l’occupazione militare lasciando da parte il resto. Quindi, sia per il bene dei palestinesi che lottano per i loro diritti, che per gli ebrei-israeliani che condividono questo obiettivo, sarebbe davvero utile definire chiaramente questi valori condivisi nella lotta comune contro l’occupazione e l’apartheid. Una lotta che è anche per la democrazia in questa regione. Questo genere di lotta comune è tanto radicale nell’immaginario sionista che anche quelle organizzazioni israeliane che parlano la lingua dei diritti umani, come l’Associazione per i Diritti Civili in Israele, si rifiutano di pronunciare una singola parola contro l’apartheid israeliano. Parallelamente, hanno perfezionato la retorica falsa e fuorviante delle “basi democratiche” dello Stato, sostenendo che Israele abbia solide fondamenta democratiche nel territorio del ’48 e che solo le recenti ondate di legge razziste siano da combattere, non il sistema discriminatorio di apartheid nel suo insieme. C’è quindi molto da criticare, ma non è importante come posso sentirmi io al riguardo, non sta a me dettare agli oppressi le forme della loro lotta. La mia unica scelta è tra lo stare dalla parte di chi lotta per i propri diritti, o non farlo e possibilmente trovare una soluzione alternativa. Per concludere, gli attivisti internazionali e il loro ruolo. Linah sostiene che siano stati compiuti molti sforzi per costruire una relazione solidale con gli internazionali verso la ‘resistenza nonviolenta’; ma che uguali sforzi non siano stati fatti per coinvolgere la società palestinese. Qualcuno teme che l’attuale agenda politica non sia completamente dettata dai palestinesi, ma subisca una sorta di influenza esterna. Luisa Morgantini, in una recente intervista a Osservatorioiraq.it, sostiene invece la necessità di condividere la strategia politica tra israeliani, internazionali e palestinesi. Credo che nel lungo periodo qui ci sarebbe bisogno di avviare un processo educativo per superare le ostilità tra le due società e soprattutto per risolvere la questione del “lavaggio del cervello” presente nella società ebraico-israeliana. Ma mentre lavoriamo all’interno delle nostre rispettive comunità c’è una lotta di breve periodo, più immediata, che si sta portando avanti: quella per i diritti e la fine dell’oppressione. È questa la battaglia che stiamo combattendo adesso, questa la battaglia in cui ci siamo uniti - privilegiati e oppressi - per rivendicare uguali diritti per tutti. Questa lotta è condotta dall’interno, attraverso forme diverse di resistenza ma principalmente da quella popolare, che non ha al suo attivo grandi numeri ma è concentrata su un aspetto soprattutto simbolico della lotta. Ogni atto di resistenza infatti, non importa quanto piccolo, mostra al mondo come le persone oppresse rivendichino i loro inalienabili diritti e come questi diritti siano negati loro dalla brutalità israeliana. Questa lotta è diretta ai cuori e alle menti delle persone comuni all’esterno, e oggi la Palestina è diventata un simbolo di resistenza. Ma, naturalmente, è anche portata avanti dall’esterno del contesto Palestina/Israele, e con grande forza. Penso alla Campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndr), un movimento globale guidato dai palestinesi, grazie al quale ognuno dall’esterno può unirsi alla battaglia. Dal momento che Unione Europea e Stati Uniti stanno garantendo a Israele la piena impunità per i crimini che commette, sta a noi la gente pretendere che Israele rispetti i suoi obblighi rispetto alla legalità internazionale e garantisca pienamente il rispetto dei diritti umani. Così come successe con l’apartheid in Sud Africa, sempre più persone in tutto il mondo si sono messe in azione, avanzando le stesse richieste per il rispetto dei diritti del popolo palestinese. La questione strategica che quindi dovremmo porci non è tanto su quello che facciamo, ma se quello che facciamo lo stiamo facendo nel mondo più efficace possibile. Come può un movimento globale fatto da persone che vengono da tutto il mondo, e che chiede il rispetto dei diritti, lavorare su larga globale contro i poteri forti e avere successo? Sappiamo che è possibile, e tutti possiamo percepire che qualcosa sta cambiando. Per quanto lunga possa essere la strada, non siamo più a un punto morto: ogni passo è un passo che ci conduce più vicino al nostro obiettivo di libertà, uguaglianza e giustizia per tutti.
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