La Repubblica 15/11/12
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16/11/2012

Perché finisce sott'acqua la nostra terra dimenticata
di Carlo Petrini

Siamo stati incauti, se non scellerati, nel depredare il nostro paesaggio, abbandonarlo, coprirlo di cemento, nel costruire senza criteri preventivi rispetto a cataclismi cui ormai dovremmo essere un po abituati, e anche preparati, da almeno qualche centinaio di anni

Mi ricordo che dalle mie parti, nelle Langhe, tutte le volte che pioveva molto, e per alcuni giorni di fila, si diceva che i contadini iniziassero a “portare l’acqua a spasso”. Sulle colline e su qualsiasi altro terreno in pendenza gli agricoltori, armati di zappa, scavavano stretti e lunghi solchi pieni di curve: così aiutavano l’acqua a “camminare” per un po’ prima che scendesse a valle. Una precauzione perché non acquisisse forza distruttiva, sia per le coltivazioni sia, a valanga e nei casi più gravi, per le costruzioni.

Penso a questo frammento di memoria, che tanti anni fa mi sembrava più che altro un racconto colorito riferito alla mia civiltà contadina, ogni volta che in Italia un territorio va sott’acqua o un fiume esonda portando danni, tristezza e purtroppo morte. E ci penso sempre più spesso, perché mi capita regolarmente ogni autunno da un po’ di anni a questa parte, e molte volte anche a fine inverno. Per curiosità, sono andato a controllare l’elenco delle alluvioni di una certa importanza avvenute in Italia, che si trova facilmente su internet. Salta subito all’occhio come i fenomeni gravi in termini di danni materiali e di vite umane si siano molto intensificati a partire dal secondo dopo-guerra. Guardando quell’elenco, poi, si capisce che l’Italia è da sempre un Paese naturalmente soggetto a questi eventi, ma una tale escalation non è spiegabile se non con una riflessione riguardante la nostra cura per il territorio e i luoghi in cui viviamo.

Sarebbe forse troppo facile - ma anche poco serio senza un adeguato supporto scientifico - chiamare in causa il cambiamento climatico, anche perché i disastri legati al meteo si sono moltiplicati in tutto il mondo. Sicuramente qualcosa sta mutando nella prevedibilità e nella frequenza di fenomeni atmosferici eccezionali, è evidente, ma se guardiamo a come abbiamo trattato il nostro Paese negli ultimi due secoli, e maggiormente negli ultimi sessant’anni, non si può non pensare che siamo stati incauti, se non scellerati, nel depredarlo, abbandonarlo, coprirlo di cemento, nel costruire senza criteri preventivi rispetto a cataclismi cui ormai dovremmo essere un po’ abituati, e anche preparati, da almeno qualche centinaio di anni.

Non ci vuole un genio per capire certe cause e non ci vorrebbe neanche un genio della politica per cercare di correre subito ai ripari. Un piano nazionale di messa in sicurezza del territorio italiano dovrebbe essere la priorità di qualsiasi Governo, dovrebbe essere in qualsiasi programma elettorale, dovrebbe mettere d’accordo tutte le forze politiche. E invece no. Ogni autunno bisogna ricordare, di fronte a questi drammi, chi “portava l’acqua a spasso”.

Parlare di civiltà agricola del passato non è irrispettoso, non è un caso o un esercizio trito da maniaci delle contadinerie. Studi storici ci spiegano che su un territorio geomorfologicamente fragile come il nostro abbiamo iniziato un paio di secoli fa con il disboscamento a tappeto delle aree collinari e montane. Questo ha peggiorato molto la sicurezza dei terreni e reso più pericoloso il deflusso delle acque, ma quanto meno si era fatto spazio a un’agricoltura che era pur costretta a prendersi cura del territorio in maniera capillare e sistematica. Il tutto su base locale ma con una sapienza che quando in casi eccezionali doveva lamentare danni e perdite, almeno poteva inveire a ragione contro la malasorte, perché si era fatto tutto il possibile per prevenire.

Poi, con l’avvento dell’era industriale, l’inizio dell’irreparabile: prima l’abbandono delle zone più difficili da coltivare o dove mal si adattava l’agro-industria, illusoria portatrice di una troppo agognata modernità. Montagne, colline, aree considerate “arretrate” hanno visto arrivare il deserto umano, l’incuria, infine il tentativo molto problematico della Natura di riprendersi i suoi spazi. Non smetto di ricordare ciò che mi ha detto una volta Tonino Guerra: «L’Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c’era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l’abitavano: i contadini». Con l’abbandono di queste campagne si è rotto un equilibrio che è esploso a valle e nelle pianure con il boom edilizio e delle aree industriali: un’altra escalation direttamente proporzionale a quella dei disastri che ormai a torto continuiamo a chiamare “naturali”. Abbiamo assistito a una cementificazione virale che, com’è stato più volte ricordato su queste pagine, non ha mai accennato a fermarsi, e negli ultimi trent’anni è anche peggiorata con 6 milioni di ettari di suolo fertile strappati al nostro Paese. Il tutto a fronte di dati che ci parlano di dieci milioni di case vuote, sfitte o inutilizzate. E non sindachiamo sulla qualità di queste costruzioni. Un disegno di legge per fermare il consumo di suolo, proposto dal Ministro delle politiche agricole e forestali Mario Catania, è pronto ed è stato molto migliorato dalla Conferenza Stato-Regioni anche in base a richieste della società civile: voglio sperare che venga approvato celermente da questo Governo entro i termini di scadenza della legislatura, a maggior ragione dopo i fatti degli ultimi giorni.

Continuando con la storia, invece, l’abbandono delle campagne è proseguito anche in pianura: i contadini sono diventati sempre meno e sempre più soli, alle prese con un’agricoltura industriale che bada al territorio (cioè lo sfrutta) soltanto nella misura in cui rappresenta un fattore produttivo, dunque senza attenzione per le opere che potrebbero avere un interesse per la collettività. Infine c’è stata anche la dismissione delle aree industriali: non posso non pensare a quegli spettri di territorio che sono diventati certi punti della Valle Bormida o che presto lo diventeranno, come il tarantino.

Quasi nessuno si prende più cura dell’Italia. Legambiente ha stimato nel 2010 che l’82% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico, in cinque Regioni siamo al 100%. Nemmeno lo Stato, che potrebbe fare tanto, fa il suo mentre insegue testardamente “grandi opere” che ormai suonano sempre più come una presa in giro. Non si può non urlare la richiesta di un piano serio e moderno di messa in sicurezza del territorio nazionale. Piano che agisca a livello locale non soltanto con opere minime e semplici (ma queste sì, grandi) di cura e manutenzione: anche attraverso la tutela dei suoli fertili e la rimessa in produzione di quelli compromessi (con forme di neo-agricoltura per l’industria, come coltivazioni per bioplastica in terreni inquinati). Oppure attraverso gli incentivi per un ritorno alla campagna da parte delle nuove generazioni e un premio a chi, attraverso l’attività agricola, serve ancora la Nazione con quei lavori che sanno “portare a spasso l’acqua”. Questa è vera modernità, questo è ciò di cui si parla veramente quando si parla di paesaggio, di agricoltura sostenibile o di economia locale. Non è poesia o nostalgia. Sono cose che genererebbero più occupazione e PIL di quanto non ne facciano i disastri. Perché è terribile dirlo - e non è un caso che ci sia chi è stato colto a gioire e ridere per un terremoto - ma un disastro “innaturale” fa quote di PIL attraverso la ricostruzione o magari anche con forme di assicurazione privata che ora, guarda caso, alcuni vorrebbero obbligatorie per tutti.    

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