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Ribelli Usa: sovranità alimentare, riprendiamoci la terra Bastano 150 metri quadrati di terra, coltivata ad orto: possono risolvere da soli il problema dell’alimentazione, per un anno intero, di una famiglia composta da quattro persone. Se il mondo di sfascia giorno per giorno sotto i colpi imperiali della finanza, tra le macerie di un modello di sviluppo giunto al capolinea con l’inutile corollario del “rigore” inflitto ai cittadini da governi che non hanno soluzioni per uscire dal tunnel la nuova frontiera del futuro ha un nome antico: sovranità alimentare. Tradotto: trovare un po’ di tempo per tornare alla terra, almeno part-time, e mettersi a coltivare l’orto. Anche nelle città? Sì, certo: e se gli spazi scarseggiano, non resta che occupare quelli liberi. Detto fatto: nel Giorno della Terra, con un atto di disobbedienza civile, centinaia di attivisti americani si sono radunati ad Albany e hanno letteralmente invaso l’Area Gill, vasto appezzamento di proprietà dell’università californiana Berkeley, finora utilizzato solo per testare pesticidi e supportare operazioni speculative. Gli attivisti americani per la sovranità alimentare della Bay Area, racconta Antonio Roman-Alcalà in un servizio ripreso da “Megachip”, hanno rotto i lucchetti della grande “farm” universitaria, piantando verdure e seminando senape nei 10 acri della tenuta. “Occupy the Farm”: lo stile è lo stesso della mobilitazione contro Wall Street, fra tendopoli e “assemblee dei coltivatori”, ma con una differenza significativa: questo atto di “obbedienza morale”, annota Roman-Alcalà, è il risultato diretto di anni di organizzazione sul territorio circostante. Terreno demaniale di prima classe concesso alla Berkeley nel 1928, l’Area Gill è stata oggetto di ricerche sui pesticidi chimici. Programmi contrastati progressivamente dalla Bacua, la Coalizione della Bay Area per l’agricoltura urbana, un movimento composto da professori universitari specializzati in risorse naturali, semplici cittadini, organizzazioni per la giustizia sociale e attivisti della sostenibilità alimentare. Proposta: trasformare quel terreno in fattoria educativa per la comunità e “vetrina” dell’economia sostenibile. Netto il rifiuto: la Berkeley ha pensato di cedere terreni a società come la Whole Foods Market, ospitando anche a fini di lucro una residenza privata per anziani. Privatizzare tutto, a cominciare dalla dismissione del patrimonio pubblico: scelta ormai “classica”, da quarant’anni, da parte di enti pubblici che il neoliberismo costringe all’elemosina, verso investitori privati sempre pronti a cogliere l’occasione, a prezzi di realizzo. «Privatizzazioni e smantellamenti di programmi pubblici a favore di “associazioni pubblico-privato” scrive Roman-Alcalà sono risultati semplicemente logici di tale condizione». Una miscela letale, in piena recessione: mentre lo Stato taglia i fondi alla Berkeley costringendo l’università ad aumentare le rette, l’austerità si combina con la deregolamentazione e il consolidamento del potere delle imprese che premono sul governo per accelerare l’assetto neoliberista del quadro normativo. Una tendenza alla quale, in California, si oppone “Occupy the Farm”, che sogna di impiantare proprio sull’Area Gill un centro sperimentale di importanza strategica mondiale: un vero e proprio laboratorio per fornire istruzioni precise su come «le città possono creare sistemi alimentari che servano bene i cittadini e l’ambiente, attraverso una produzione e una distribuzione locale economicamente salubre ed ecologicamente sostenibile». “Nutrire il pianeta” è lo slogan dell’Expo 2015 di Milano, “grande opera” già naufragata in un mare di polemiche, miliardi e cemento. Nella piccola valle di Susa, il network “Etinomia” che rappresenta il tessuto economico locale propone un programma di “orti comunitari” per educare i cittadini alle virtù dell’auto-produzione di sussistenza: che aiutano a vivere meglio, riducendo le dipendenze e imparando che solo la terra in caso di collasso del sistema post-industriale potrebbe davvero “nutrire il pianeta”. «Spiazziamo il potere, mettiamoci a fare l’orto», dice l’attivista Roger Doiron, promotore mondiale degli orti urbani. Anche in Italia si moltiplicano ovunque iniziative analoghe, dagli orti collettivi di Milano e Roma ai corsi del “saper fare” promossi dal Movimento per la Decrescita Felice di Maurizio Pallante. Dalla California, “Occupy the Farm” invoca anche per gli Usa il traguardo democratico della sovranità alimentare, che «mette in primo piano il vantaggio pubblico, anziché la ricerca del profitto, come fattore ultimo del processo decisionale nell’utilizzo della terra». Al posto della distinzione tra “governo” e “mercati”, aggiunge Roman-Alcalà, la sovranità alimentare «promuove un mercato che sia responsabile e umano, perché costruito sulle vite e le decisioni di quelli che ne sono toccati». Vani discorsi di “crescita” e “sviluppo” su scala mondiale si riflettono in lotte come quelle per l’Area Gill: se Fmi e Banca Mondiale predicano in modo sempre più surreale un’improbabile economia mondiale costantemente in crescita, con fantastici benefici “a cascata” delle politiche neoliberali, è probabile che i tecnocrati della Berkeley reagiranno alla requisizione dell’Area Gill sostenendo che vendere la terra è “ragionevole”. «Demonizzeranno i manifestanti quanto più potranno, screditandone l’immagine, le intenzioni o l’ingenuità, in larga misura come i neoliberali screditano le mosse “protezioniste” o “socialiste” del governo», come fa l’“Economist” che se la prende con l’Argentina che ha appena ri-nazionalizzato il suo petrolio. Aspettarsi che i timonieri facciano la cosa giusta? «Può essere uno spreco di tempo», sostiene Roman-Alcalà, «e a volte occorre che la gente si sollevi in azioni potenti di amore disobbediente per forzare la mano alle élite». I sequestri di terre si sono ripetuti nel Sud del mondo e in America Latina, come nel caso della “Via Campesina”, aggregazione contadina internazionale trainata dall’Mst, il Movimento dei Contadini Senza Terra (MST) del Brasile, che ha insediato più di 150.000 famiglie su terreni espropriati ai latifondisti. Idem in Honduras, dove i coltivatori indipendenti si sono impossessati di terreni, chiedendo il ritorno al potere del presidente democratico Manuel Zelaya Rosales, deposto da un golpe nel 2009. L’occupazione di Berkeley può apparire anomala, perché verificatasi in un paese del mondo ricco. Dopotutto, non abbiamo una vasta popolazione contadina come invece nella maggior parte del Terzo Mondo: meno dell’1% della popolazione statunitense si dedica a tempo pieno all’agricoltura. Altro problema, aggiunge Roman-Alcalà: noi occidentali «siamo afflitti da una profonda dedizione culturale alla venerazione della proprietà privata». Tuttavia il primato del diritto di proprietà «deve essere contestato, se vogliamo ottenere un futuro sostenibile». Con un controllo così esteso del sistema alimentare globale da parte di conglomerati imprenditoriali orientati al profitto, «è un atto di fede attendersi che essi improvvisamente diano priorità all’ambiente, ai consumatori o ai lavoratori». Allo stesso modo, «è ingenuo aspettarsi che le nostre istituzioni pubbliche si oppongano a tali interessi industriali, considerando quanto profondamente acquisita è l’ideologia neoliberale e quanto totalmente gli interessi dei ricchi abbiano in pugno i dirigenti eletti». “Occupy the Farm” è dunque un atto simbolico e prezioso, dopo “Occupy Wall Street”: avanti tutta, «continuiamo a occupare il sistema alimentare in modi creativi, amorevoli, impegnativi e inattesi».
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