http://fortresseurope.blogspot.com
http://www.libreidee.orgScritto il 24/3/11

Fortress Europe: fra i morti di Bengasi, ringraziando l’Onu

«I guanti di lattice di Salim sono sporchi di sangue. Non riesco a dimenticare la scena. Uno a uno sceglie i brandelli di carne tra i vetri in frantumi dell’auto, una Daewoo Nubira. Sono il cervello di Wahid Elhasi, spappolato dalla scheggia di una delle centinaia di bombe sganciate oggi dall’esercito di Gheddafi». Benvenuti a Bengasi, 15 marzo 2011. Firmato: Gabriele Del Grande. Giovane reporter indipendente, è una delle voci della capitale ribelle della Cirenaica. Per anni ha seguito l’agonia dei migranti lungo le rotte del deserto: Somalia, Eritrea, Senegal, Niger. Ha denunciato il crimine dei “respingimenti”, viaggiando coi dannati della terra. E ha visto molti di loro sparire: derubati, picchiati, violentati e uccisi nelle carceri libiche.

Fino a ieri, prima cioè del controverso intervento militare dell’Onu in Libia, Gabriele Del Grande – 29 anni, toscano, una laurea a Bologna in studi orientali, collaborazioni con “L’Unità”, con “PeaceReporter” e col Premio Ilaria Alpi – aveva il pieno consenso di una vasta opinione pubblica, contraria alle “guerre umanitarie” e alla tratta degli schiavi, l’ondata della fame e della disperazione a cui tenta di opporsi la “Fortezza Europa”. “Fortress Europe” è appunto il nome dell’osservatorio web sulle vittime dell’emigrazione, fondato nel 2006 da Gabriele, che nel frattempo ha firmato libri-denuncia come “Mamadou va a morire”, “Roma senza fissa dimora”, “Il mare di mezzo” e collaborato al documentario “Come un uomo sulla terra”, dopo aver seguito le rotte dei migranti in Italia e nel Mediterraneo, da Malta alla Grecia, da Cipro alla Turchia fino ad Israele, all’Egitto, alla Tunisia, al Marocco, spingendosi sempre più giù: Sahara Occidentale, Mauritania, Mali,  Burkina Faso.

Il fiume umano dei disperati finiva inghiottito da una foiba sabbiosa, la Libia di Gheddafi, grazie allo spietato accordo con l’Italia per arrestare il flusso dei “clandestini”, in realtà quasi tutti profughi – della fame e della guerra, della violenza, della repressione. Migranti: l’altra faccia dell’Africa, quella che attraversa il deserto e poi il mare, per venire a chiederci aiuto. Scappano tutti: dalla polizia che ruba e tortura, da regimi corrotti che obbediscono all’Occidente, svendono le loro ricchezze e affamano le popolazioni. E’ la stessa maledizione, ovunque: vorrebbero ribellarsi, ma chi ci prova finisce ucciso. Come in Burkina Faso, il paese centrafricano di Thomas Sankara, retto dalla dittatura filo-francese di Blaise Compaoré: memori del martirio del grande leader rivoluzionario assassinato nel 1987, i giovani burkinabé di stanno battendo nel nome di Sankara, ma vengono sistematicamente uccisi. Si sono sollevati, anche loro, dopo le insurrezioni in Tunisia, in Egitto, in Libia e nel Golfo.

Proprio la “rivoluzione 17 febbraio” – secondo alcuni, un’abile orchestrazione parigina – ha spinto Gabriele Del Grande a Bengasi, il capoluogo della Cirenaica: da lì aggiorna il suo diario quotidiano su “Fortress Europe”. Notizie di prima mano, da testimone oculare: «Ve lo assicuro, qui a Bengasi si è sollevato il popolo dei giovani», il “popolo della piazza”, quello che ha trovato dopo tanti anni il coraggio di dire basta ai tagliagole di Gheddafi. Gabriele sa benissimo che non tutti la pensano così, e che molti non digeriscono l’intervento armato della coalizione internazionale. Ma non rinuncia a dire la sua: la crisi libica mette in discussione certezze radicate, come il “no” alle armi in qualsiasi caso. Lo scrive uno che ha vissuto sotto le bombe. Giornale di guerra, 16 marzo: «Notte di fuoco a Benghazi. Dopo la disfatta degli insorti a Ijdabiyah sotto gli incessanti bombardamenti dell’aviazione di Gheddafi, martedì sera la contraerea ha sparato per ore in pieno centro della città. E il cielo è stato illuminato a giorno dai traccianti, mentre in prossimità del porto sono stati esplosi anche candelotti di dinamite. Stavolta però nei paraggi non c’era nessun obiettivo del nemico. E ogni colpo sparato era una liberazione di gioia. Proprio così, per quanto assurdo possa sembrare, Benghazi ha fatto le ore piccole celebrando la vittoria che non c’è».

Un vero e proprio delirio collettivo, scrive Gabriele, basato su una serie di «notizie non ancora confermate» secondo cui «l’armata della rivoluzione» avrebbe abbattuto aerei, affondato navi e bombardato Sirte. «Qualcuno però non ha capito che era tutto uno scherzo. E quando ha sentito la contraerea in azione per tutta la notte, si è spaventato a morte. Sono gli eritrei, gli etiopi e i somali respinti dall’Italia e finiti in mezzo alla guerra». Leggere il reportage quotidiano di “Fortress Europe” aiuta a capire, in tempo reale, cosa sta davvero succedendo. Del Grande racconta gli effetti dei nuovi raid compiuti dai Mirage di Gheddafi: crateri di bombe, ospedali pieni di morti e feriti. La grande paura: il dittatore sta per massacrare Bengasi sotto assedio. Poi, di colpo, la notizia tanto attesa: «Ballano, corrono, cantano e sparano in aria. Sono i ragazzi della rivoluzione di Benghazi. Che questa volta festeggiano davvero. È da poco passata la mezzanotte del 17 marzo, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha appena approvato la risoluzione sulla no fly zone».

In strada si riversano migliaia di automobili, i clacson suonano all’impazzata ma a malapena si sentono, coperti dalle continue raffiche di kalashnikov e dai botti dell’artiglieria. Davanti al tribunale è una ressa: «I ragazzi cantano “Irfaa raskum anta libi”, alza la testa sei un libico». Scrive Gabriele: «La gioventù ha ritrovato l’orgoglio e ha scoperto col sangue di essere una comunità, con i suoi sogni di libertà e con il suo gusto per la sfida. Anche estrema. Come quella lanciata a rischio della propria vita ai miliziani di Gheddafi, che continuano indisturbati a colpire i civili». C’è infatti un lunghissimo interregno sospeso, di terrore e morte, fra l’annuncio dell’Onu e l’avvio dell’intervento militare. Ne approfitta il Colonnello, per fare strage: l’ospedale Jala è l’ultima trincea dei pochissimi infermieri rimasti, insieme ai 20 giornalisti ancora presenti in città, sotto le bombe.

«La guerra è arrivata a Benghazi», annota Gabriele il 19-20 marzo, chinandosi su una delle vittime: «Il prossimo da portare via è Mohamed Said Mahdi. L’hanno appena lavato. Il corpo è avvolto in un lenzuolo bianco dalla vita in giù. I capelli sono ancora bagnati. Un infermiere gli passa con cura per un’ultima volta un batuffolo di cotone inumidito sul volto. L’occhio sinistro non c’è più. Gli hanno sparato in faccia. E un altro colpo sul fianco, al cuore. Aveva 24 anni ed è la vittima numero 70 di oggi». La camera mortuaria tracima di corpi, offerti allo strazio dei parenti in processione. Assistenza e conforto: «La maggior parte sono volontari, gente comune venuta a dare una mano».

Poi, finalmente, il 19 marzo l’aria si riempie del rombo di altri aerei, i Rafale francesi che arrivano dal mare: sorvolano Bengasi e devastano i tank e le batterie lanciamissili di Gheddafi che cingevano d’assedio la città. La piazza esplode di gioia, sventolando bandiere francesi e scandendo slogan sgrammaticati, anglo-franco-italiani, come “One two tre, merci Sarkozé!”. «I manifestanti non vogliono l’occupazione militare, sanno bene cos’è diventato l’Iraq», scrive Gabriele, che aggiunge: tra la folla c’è addirittura qualcuno che pronuncia frasi impensabili fino a pochi giorni prima, del tipo: “Ringraziamo Dio e gli Stati Uniti d’America!”. «Forse non piacerà ai tanti che in Italia credono giustamente alla cultura della pace e che quindi si oppongono per principio all’uso della guerra come strumento per la controversia dei conflitti internazionali», osserva Gabriele, «ma queste sono le parole della piazza di Benghazi, e che ci piacciano o meno, vanno raccontate».

Del Grande salta su un pick-up ed è tra i primi ad arrivare fuori Bengasi, dove il raid francese ha appena colpito. L’artiglieria di Gheddafi è ridotta a un cimitero, con mezzi inceneriti: 26 carri armati, 7 rampe lanciamissili Grad, pick-up lanciarazzi, 19 camion con munizioni, una batteria antiaerea, un lanciamissili con radar. «Sono soltanto una parte dell’artiglieria pesante che Gheddafi aveva spedito per riprendere il controllo della città di Benghazi». Gli insorti raccontano di imponenti colonne in fuga nel deserto, almeno 40 tank e 60 lanciamissili. «La domanda della gente è una sola: “E se fossero entrati a Benghazi?”. Sì, perché erano questi i rinforzi destinati a stanare “i ratti” della rivoluzione, “casa per casa”, “vicolo per vicolo”, “senza pietà”, come gridava da giorni infuriato in televisione il colonnello Gheddafi».

Con il senno di poi, riflette Gabriele, la strategia di Gheddafi era intuibile: «Giocare di forza, opponendo l’artiglieria pesante all’agilità dei due o tremila ragazzi dell’armata popolare. Una volta portati i carri armati e i lanciamissili in città, infatti, l’aviazione francese non avrebbe potuto bombardarli, perché troppo vicini ai centri abitati. E gli squadristi dei Lijan Thauriya avrebbero potuto seminare il terrore». I Lijan Thauriya sono i pretoriani del Colonnello, «incaricati di terrorizzare e reprimere gli oppositori». Solo a Bengasi, un migliaio di uomini: gli insorti hanno offerto loro un’amnistia, ma quando i tank hanno assediato la città sono ricomparsi, sparando sulla folla, e così si è scatenata la caccia all’uomo: chi non consegna le armi, sarà arrestato. Sperando che prima o poi venga catturato anche il Colonnello, come dice il portavoce del Consiglio nazionale transitorio, Abdelhafid Ghoga: «Con Gheddafi non si discute, deve essere processato per ogni singola goccia del sangue che ha versato: per rispetto dei martiri della rivoluzione, ma anche per tutti i martiri degli anni Ottanta e Novanta».

Gabriele Del Grande, che ha fatto della militanza civile nonviolenta la sua bandiera anche professionale, sa benissimo che la sua appassionata difesa della “rivoluzione” di Bengasi, salvata in extremis dai caccia della coalizione anti-Gheddafi, non piace ai pacifisti che pure hanno sempre apprezzato il suo lavoro in difesa dei migranti: «Mentre pubblico questi pezzi – scrive – in Italia si manifesta contro la guerra in Libia, nel nome della cultura della pace. Non prendetemi per un interventista, perché non lo sono, ma il mio lavoro è raccontare quello che vedo, anche quando è diverso da quello che vorrei vedere. E la piazza di Benghazi usa parole diverse da quelle dei pacifisti italiani. Dove stia la verità non lo so. E probabilmente sono troppo vicino ai morti di Benghazi per saperlo. Ma ascoltare questa piazza credo serva a tutti, anche a chi ritiene inamovibili le proprie posizioni».

Insiste Gabriele, il 22 marzo: «Chiediamoci seriamente cosa possiamo fare, al di là del no alla guerra. Ieri a Misratah, con la città sotto assedio, la popolazione è scesa in piazza per una manifestazione. Gli hanno sparato addosso i miliziani di Gheddafi». Bilancio drammatico: 40 morti, 180 feriti e una città allo stremo, senza acqua ed elettricità da una settimana. «Di nuovo, chiediamoci seriamente cosa possiamo fare in queste ore», nonostante i pesanti interrogativi sui retro-scenari della campagna “umanitaria”. «La Francia ha venduto armi a Gheddafi fino all’altro ieri? L’Italia era il migliore alleato della dittatura? Gli Stati Uniti lavoravano da anni per riabilitare a livello internazionale il Colonnello in cambio di buoni affari? Sì, è tutto vero. Come è vero che agli alleati non interessano i diritti umani, altrimenti sarebbero intervenuti prima usando le vie diplomatiche, ma soltanto la protezione dei propri interessi in Libia. Un paese evidentemente troppo ricco per essere abbandonato nel caos per anni». Conclude il giovane reporter: «Siamo tutti d’accordo su queste analisi. Ma torniamo ai ragazzi di Benghazi, ai ragazzi di Misratah, di Zawiyah, di Zintan, di Ijdabiya. E chiediamoci seriamente cosa possiamo fare in queste ore. Lo dobbiamo al coraggio di questa gente»