http://www.agoravox.it/ AgoraVox incontra Julian Assange. Due ore a colloquio con Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, l’uomo del momento che proprio in queste ore si difende davanti ad un Tribunale britannico. Due ore dense in cui abbiamo parlato anche di due testate nazionali che si sarebbero rifiutate di pubblicare i cables e dei problema dell’informazione italiana ("i vostri giornali pubblicano solo se già è arrivata la magistratura").
L’intervista è quanto di più citizen ci sia, nel senso che non c’è stata una trafila “ufficiale” (chiamate all’ufficio stampa, richieste di interviste etc...), ma è stato più d’assalto. Essersi fatti conoscere nel tempo per il proprio lavoro e il progetto che cerchiamo di portare avanti, essere andati in Inghilterra per seguire il processo e essere riusciti sotto la pioggia battente, rivolgendoci a Assange, direttamente, a ottenere l’intervista mentre era ai domiciliari: è questo che abbiamo fatto. Una volta arrivati lì, davanti all’uomo che aveva lottato fino all’ultimo secondo per aggiudicarsi il titolo di uomo dell’anno del Time (vinto da Mr Facebook, Mark Zuckerberg), ma soprattutto che aveva sconvolto, con i propri leaks, le diplomazie di mezzo mondo (e soprattutto quella Usa) non potevamo accontentarci di una dichiarazione, che pure avevamo.
“Ciao Julian sono Francesco, Francesco Piccinini”... “Francesco! Entra!”. Uno scambio di battute normale, quasi banale, ma se la persona che ti sta invitando ad entrare è Julian Assange, quello scambio assume contorni ben differenti. Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, l’uomo che ha scosso, grazie alle sue rivelazioni, le burocrazie mondiali e che in questo momento deve difendersi davanti ad un Tribunale inglese che dovrà decidere se estradarlo o meno in Svezia, dov’è ricercato con l’accusa di stupro. Ci sarebbe da chiedersi perché venga processato presso la Belmarsh Magistrates' Court, la corte che è definita la Guantanamo inglese e che si occupa di terroristi, ma questa è un’altra storia... Quando lo avviciniamo Julian è in macchina mentre il vento fuori batte forte. Così, mentre la sua assistente continua a ripetergli se ne sia proprio sicuro, ci fa segno d’entrare. E’ un attimo, lei chiude il finestrino, li vedo confabulare, mi dico: “ora ci ripensa”, invece lei scende con la faccia scettica mentre Julian sorride. Le due ore davanti al camino con Julian Assange sono iniziate così, inaspettate. Due ore in cui, spesso, devo fugare il pensiero di essere lì e concentrarmi su quello che devo fare. Fortunatamente c’è Giorgio Scura (amico e collega di Leggo, colui che mi ha convinto ad arrivare fin qui su). E’ Giorgio che, nei momenti in cui ci lasciamo andare a chiacchiere sull’Australia o ai ricordi di quanto fatto insieme in questi due ultimi anni, riprende il filo del discorso. Con Julian abbiamo ripercorso i “rampanti” anni ’90 di internet nel sud del mondo, anni in cui ho avuto la fortuna di "incontrarlo" anche se, all'epoca, per me, lui era solo un nickname. Il nostro viaggio era iniziato il giorno prima quest'intervista. Giorgio mi passa a prendere nella casa dove alloggiavo a Londra e in auto partiamo alla volta del Norfolk, costa britannica, Mare del Nord. Contea schiacciata tra le navi e la caccia. Contea di inglesi purosangue, tant’è che sul certificato di nascita dei bambini nati qui scrivono: NNP. Normal Norfolk Person. Mentre siamo in macchina continuo a chiamare sul cellulare del portavoce di WikiLeaks, Kristin Hrafnsson: “Francesco non so se ce la farete a vedervi, Julian è molto impegnato in questi giorni con la preparazione del processo. Vai, prova ad incontrarlo, se ha tempo ti riceverà”. Abbiamo attraversato città immerse nel vento fino ad arrivare a Beccles dove abbiamo incontrato la polizia locale presso cui Assange trascorre i suoi arresti domiciliari, in attesa di essere processato (oggi, ndr). Appena entrati nel commissariato il poliziotto ci guarda e dice: “Giornalisti!” e continua “dalle 14 alle 17”... Come un refrain ripetuto mille volte. Il giorno dopo siamo lì, alle 14, fuori il commissariato ad attendere l’arrivo di Julian. Con noi la BBC e un collega di un’altra testata francese. Alle 16.45, Assange arriva, la sua assistente parcheggia la macchina e lui corre a firmare, non rilascia interviste, non vuole parlare. E’ alto, molto, indossa un completo blu che mette in risalto la sua strana posa, una posa che unisce movimenti eliatici e una sorta di goffaggine. Quando non si ferma penso sia finita, penso che non ci riusciremo. Giorgio scappa verso la macchina e di corsa cerchiamo d’intercettarlo... Il resto, be’, è quanto detto sopra. Prima di farci accomodare in salotto ed iniziare le nostre due ore di colloquio, Julian ci ha perquisito. Quando l'assistente ci chiede di posare tutto ciò che avevamo nelle tasche pensiamo volesse i registratori e invece ci restituisce i cellulari mentre è lo stesso Assange a controllarci da capo a piedi. Un gesto inatteso ma che è comprensibile per chi, come lui, non ha molte persone di cui fidarsi. Un gesto che precede un sentiero fatto di stanze (tante) e tigri imbalsamate (due), sembra che un antenato di Vaugh Smith (il reporter di guerra inglese che ha messo a disposizione di Assange la sua casa) sia stato un famoso cacciatore inglese: “Ne ha uccise 99”, ci dice Julian mentre ci fa strada. I primi 30 minuti vanno via con tranquilli, con “Mr. Wikileaks” che accende il camino mentre mi chiede come va AgoraVox. 30 minuti in cui tutto quanto intorno non è che campagna inglese e vento. Poi si entra nel vivo. Perché non hai mai dato i cables a giornali italiani? "L'abbiamo fatto. Li abbiamo dati a un grande giornale, ma hanno deciso di non pubblicarli e di lavorarci su attraverso degli articoli". A quale giornale li hai dati? "Erano due. I due più grandi (non ci rivela i nomi, ndr). In precedenza avevamo anche lavorato con uno dei due, ma alla fine non ne hanno fatto nulla. E' successa la stessa cosa in Giappone, abbiamo dato i cables anche a un loro quotidiano nazionale, il più importante, pensa che hanno 2200 giornalisti, senza contare le altre figure, solo di reporter, praticamente lo stesso numero della Reuters. Hanno rifiutato anche loro e lavorano in una maniera molto metodica, potremmo dire "alla giapponese" (sorride, ndr). In che città dell'Australia sei cresciuto? "Vengo da molti posti (sorride). I miei genitori lavoravano nel teatro, quindi ho vissuto ovunque, da Darwin fino a Merlbourne. E tu dove abitavi in Australia?". Perché sei un rischio? “Io sono un rischio, perché se non verrò punito, diventerò un simbolo per tutte le persone che hanno detto no al regime degli Stati Uniti. E allora tantissime persone potranno dire no". "Hanno costruito una falsa storia per screditarmi".
Cosa ti ha spinto ad andare verso il campo dell’informazione? “Ho iniziato perché troppo spesso i giornalisti hanno rinunciato al loro ruolo di guidare il dibattito pubblico, sollevare delle tematiche, diventando semplicemente delle persone che lo seguono, piuttosto che guidarlo. Quello che abbiamo fatto noi di Wikileaks è, probabilmente, una cosa che nessun altro avrebbe mai fatto. I giornalisti non capiscono che hanno un potere che in pochi hanno: il poter guidare un dibattito". Qualche esempio? "Prendi l'esempio di Bill Keller del New York Times, lui ha fatto una descrizione di me dicendo che quando mi ha incontrato avevo la maglietta sporca, le scarpe da ginnastica, i calzini sporchi, dicendo che ero una persona trasandata, che puzzavo. Era il momento in cui ero ricercato, quindi scappavo da un posto all'altro. Io mi chiedo perché abbia detto soltanto la prima parte e non la seconda, di quello che gli ho raccontato, cioè che stavo sveglio per giorni interi per scappare. Questo è solo un esempio di come si può screditare una persona. Tutto questo è indegno e anche se fosse stato vero, che necessità c'era di scrivere queste cose (che ero sporco e che puzzavo perché ero un fuggiasco)? Probabilmente tutto questo lo fanno per giustificarsi agli occhi di Washinghton del fatto che il New York Times ha collaborato con Wikileaks. E' come se volessero dire alla Casa Bianca: "non ci stiamo esponendo contro di voi, ma stiamo lavorando per voi”. Come hai scelto il New York Times? “Oggi posso dire perché abbiamo fatto una scelta di avere un giornale americano: perché le nostre fonti erano americane e per un motivo legale, avendo un giornale americano, avremmo potuto tutelarle meglio. Nel caso fossero state fermate avrebbero avuto un editore che avrebbe dovuto tutelarle in tribunale ed è per questo che abbiamo scelto un giornale americano”. E poi cos’è successo? “Noi abbiamo chiesto al New York Times di uscire per primi, di pubblicare per primi le notizie che gli fornivamo, hanno accettato ma poi, incredibilmente, hanno detto no: “pubblicate voi prima”. Come c*** è possibile? Il New York Times rinuncia alla più grossa serie di scoop per farli pubblicare a un piccolo sito Internet? E qui capisci che è successo qualcosa di paradossale che ha capovolto i loro istinti di concorrenza, perché avevano talmente tanta paura del governo che se noi non avessimo pubblicato, loro non avrebbero mai dato alle stampe nulla. Abbiamo saputo che appena abbiamo consegnato loro i cables, sono andati ad un tavolo con i rappresentanti della Cia e del Nsa e hanno detto: "Questo è quanto ci hanno dato". Ci puoi fare un esempio? “Per esempio una delle notizie più importanti, quella della storia dell'Unità 373, che è la storia più importante di quello che capitava in Afghanistan, che ha ucciso circa 2mila persone messe su una lista, che si occupava di esecuzioni mirate. Un'unità talmente potente che addirittura, quando il fratello di Karzai s'è permesso di uscire dal seminato, il generale Usa ha detto: 'Sbaglia ancora e ti metto sulla lista' (e qui fa riferimento al cable che parla di un coinvolgimento del fratello di Karzai in traffici di droga). Il governo afghano si è lamentato di questa cosa perché anche se sei uno spacciatore, anche se aiuti i talebani, certamente non possono esistere operazioni, come quella dell'Unita 373, che vanno al di fuori della legge. Quando abbiamo raccontato questa storia Keller e Schmitt non hanno voluto parlare, "censurando" il fatto più importante dei documenti sull'Afghanistan che abbiamo rivelato. Questo ti dà il polso di quanto l'informazione non faccia il proprio dovere” Avete avuto lo stesso problema con altri giornali? “Un problema simile l'abbiamo avuto con The Guardian, quando tu dai le informazioni al Guardian, a chi le stai dando? Alla redazione o a The Guardian Corporation, che è collegata a tutta una serie di interessi economici? A chi la stai dando? E qui non voglio dire che tutti quelli che lavorano là siano cattive persone o cattivi giornalisti, ci sono anche brave persone, allora d'ora in poi preferiamo parlare direttamente con queste brave persone. Anche perché altrimenti continueremo a dare le informazioni alle persone che controllano il Guardian, e non a quelle che lavorano per il Guardian. Anche perché se noi continueremo a darle alle persone che controllano i giornali perpetueremo, semplicemente, lo status quo”. Che cosa ne pensi della Francia? E' successa la stessa cosa con Le Monde? "Ci sono due motivazioni per cui noi abbiamo dato la notizia a diversi giornali. La prima è perché se un giornale non la dà, come successo, ce ne può essere un altro che ne fa una storia di copertina coma ha fatto Der Spiegel. Se viene data al New York Times e la notizia viene tagliata, come successo, ci può essere un altro giornale che approfondisce la notizia. La seconda ragione è quella che ho detto prima: quando tu dai un cable al Guardian, a chi lo stai dando: a una persona che lavora per quel giornale o che controlla quel giornale?". Che problemi avete avuto con il Guardian? “Siamo stati forzati a fare le cose in una maniera molto più veloce di quanto avremmo voluto perché c'è stato un problema con il Guardian, che ha rotto gli accordi. Noi avevamo con loro un contratto legale. Gli abbiamo dato un back up totale dei file, erano gli unici a cui abbiamo dato l'archivio completo, non potevano pubblicarli, né metterli su un pc collegato a Internet, potevano solo leggerli. E loro hanno rotto ogni singolo punto di questo contratto. Volevano pubblicarli, li hanno messi anche su un pc collegato al Web: chi lo sa se ora per esempio la Cina non abbia trafugato tutti i 250mila cables? Questo ci ha costretto a fare le cose in maniera molto più rapida. Siamo andati dagli avvocati per cercare di avere un mese di tempo in più per evitare la pubblicazione, perché sapevamo che saremmo stati sotto attacco nel momento in cui sarebbero stati pubblicati. E l'abbiamo ottenuto”. E che scelte avete fatto per la pubblicazione? “Abbiamo poi scelto di non pubblicare nulla su Israele la prima settimana, perché questo ci avrebbe creato grossi problemi. Così abbiamo iniziato con la pubblicazione di file su altri Paesi, così, una volta che la barca era partita, sarebbe stato più difficile fermarla. All'inizio non avevamo tanti file su Israele (presupponendo che altri file siano arrivati dopo l'inizio della pubblicazione dei cables, ndr) e avevamo paura di attacchi che venivano dall'Est Coast degli Usa. Se fossimo partiti subito con cables su Paesi più caldi sarebbe stato più facile far deviare la barca. Durante questo primo periodo, durante gli attacchi informatici che abbiamo subito, la cosa più importante è che nessuno si sia fatto male”.
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