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L’iniziativa di settembre: i diritti nazionali palestinesi sono il punto di partenza Il vero significato dell’iniziativa palestinese di settembre alle Nazioni Unite è l’opportunità di un ritorno degli assiomi che dovrebbero guidare le scelte politiche in Palestina: i diritti sociali e nazionali palestinesi con tutte le loro componenti, spiega Nassar Ibrahim.
L’annuncio del presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, che a settembre l’AP chiederà la piena adesione alle Nazioni Unite e il riconoscimento dello Stato di Palestina, solleva controversie politiche e questioni legali, sia nell’arena palestinese che in quella internazionale. Più le organizzazioni della società civile e politica palestinese esplorano tale questione, più complesso diventa il tema. Questa complessità crescente dimostra come un simile passo non sia il risultato di una strategia politica nazionale ragionata, che avrebbe dovuto guidare verso una tale scelta. La richiesta di riconoscimento avrebbe potuto essere il culmine di un processo di reale riconciliazione tra Hamas e Fatah, una ricostruzione dei movimenti popolari palestinesi e una riforma delle relazioni con gli altri popoli arabi, così come con i movimenti della società civile internazionale e quella israeliana antisionista. Ma non è stato così. Il primo elemento di preoccupazione è che questa scelta è giunta improvvisamente e non come risultato di un processo di valutazione dei risultati politici palestinesi da Oslo a oggi. In altre parole, sembra essere un’opzione scelta a causa di una crisi, piuttosto che un passo intenzionale verso una nuova strategia nazionale. Un’analisi del contesto politico e storico, indissolubilmente legato alla lotta nazionale palestinese e ai suoi obiettivi, è fondamentale per tale iniziativa perché rappresenti qualcosa di più di una manovra diplomatica sotto l’ombrello del cosiddetto processo di pace (i negoziati), che è stato un processo disfunzionale fin dall’inizio, dalla Conferenza di Pace di Madrid del 1991, fino alla sua morte nel 2011. Questo fallimento può essere spiegato con il fatto che al processo di pace sono mancate le necessarie precondizioni per il suo successo fin dall’inizio, perché tutti i negoziati sono stati soggetti alle relazioni di potere diseguali con l’alleanza Israele-Stati Uniti, sostenuta dall’Unione Europea e dai regimi arabi, validi partner di tale coalizione. Approcciare questa scelta politica e le sue diverse dimensioni significa identificare il riferimento e il punto di partenza del processo, al fine di evitare un dibattito che cada nella trappola degli interessi politici. Un fatto che ci autorizza una volta ancora ad tornare al cuore del conflitto tra l’occupazione coloniale israeliana e i suoi obiettivi e le aspirazioni palestinesi alla liberazione nazionale. Una valutazione positiva o negativa dovrebbe svolgersi al di là di approcci semplicistici e cominciare da un punto di vista strategico. È importante identificare i principi e gli obiettivi della strategia di liberazione nazionale, se i palestinesi andranno o no alle Nazioni Unite. La discussione va oltre le controversie legali e le campagne di relazioni pubbliche che mirano a fare il solletico all’altra parte. La questione centrale non è se la mozione alle Nazioni Unite sia giusta o sbagliata, come principio. Questa decisione rappresenta l’abbandono delle strategie e i riferimenti dei precedenti negoziati (i cui termini erano dettati dallo squilibrio di potere)? E rappresenta il ritorno alle risoluzioni Onu e alla legge internazionale come riferimento per ogni futuro processo di pace? Soltanto queste due domande dovrebbero essere il punto centrale di ogni dibattito. Se la risposta è positiva, la richiesta di riconoscimento rappresenterebbe il primo passo di una nuova strategia palestinese: la ricostruzione della lotta palestinese sulla base delle esigenze di unità nazionale e la riconsiderazione della resistenza in tutte le sue forme e i suoi diritti, così come la ricostruzione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese, che possa contare su un consenso nazionale in merito ai diritti palestinesi (il diritto al ritorno, l’autodeterminazione, la creazione di una sovranità indipendente dello Stato di Palestina con Gerusalemme come sua capitale e lo smantellamento delle colonie). Alla luce di tutto questo, l’iniziativa di settembre diventerebbe parte di una strategia politica nazionale e non la strategia stessa. Andare alle Nazioni Unite a settembre non è e non dovrebbe essere la conclusione, perché la realtà sul terreno non cambierà come effetto di questo unico passo. L’esperienza della lotta palestinese negli ultimi decenni mostra che la garanzia di una certa armonia tra i requisiti dei diritti nazionali palestinesi da una parte e le dinamiche politiche, sociali e culturali dall’altra sono stati gli unici elementi capaci di salvaguardare la lotta palestinese nella sua struttura strategica. In ogni periodo storico questi principi sono stati violati da ragioni tattiche e il prezzo pagato dai palestinesi in merito ai loro diritti è stato enorme. Questa è la lezione da imparare dall’amaro raccolto degli Accordi di Oslo e la causa è di nuovo rappresentata dal fatto che il processo di pace non ha rispettato le basi e gli obiettivi di questa fase di liberazione nazionale. Il rispetto dell’accordo è diventato la meta e non il mezzo per garantire i diritti nazionali palestinesi. Qualcuno ha suggerito che l’avvio dei negoziati e la creazione dell’Autorità Palestinese significano che il popolo palestinese ha superato questa fase, con tutti i suoi diversi bisogni nazionali, politici e organizzativi. Invece di bloccarsi sull’iniziativa di settembre, si deve aprire un dibattito interno alla società palestinese, con l’obiettivo di presentare una riforma dell’attitudine politica della leadership degli ultimi vent’anni. Il punto di partenza è la ristrutturazione interna degli equilibri di potere tra gli attori politici e sociali i movimenti, i partiti di sinistra e la moltitudine di coloro che vedono la necessità di continuare la lotta per la liberazione con tutte le sue connessioni internazionali. In ogni caso, la leadership palestinese deve ricordare che il fallimento di tutte le “iniziative di pace” può essere spiegato dal semplice fatto che hanno tentato di saltare sopra ai diritti nazionali fondamentali dei palestinesi e all’unità del popolo, nel tentativo di costruire una pace dietro i requisiti imposti dall’occupazione israeliana. Le concessioni date dalla leadership palestinese hanno profondamente scosso le fondamenta di tali diritti e hanno di conseguenza distrutto ogni potenziale legittimità del processo di pace, che è diventato, agli occhi dei palestinesi, solo una scelta di una piccola élite politica che va contro i diritti e gli interessi della maggioranza, mentre la controparte nei negoziati (Israele) si aggrappa alla sua politica coloniale in terra palestinese. L’argomento sopra menzionato non è una disputa vuota, ma rappresenta il ritorno agli assetti persi nelle politiche subdole che continuano ad adeguarsi ai requisiti per la fine del conflitto, a volte come forma di realismo e altre volte come equilibrio dei poteri. Qualsiasi politica di successo deve essere basata sui fondamenti della fase di liberazione nazionale, sui suoi obiettivi e le sue strategie, una fase dalla quale derivano legittimità e moralità. Impegno e adesione ai diritti nazionali palestinesi e alla loro giusta lotta per la libertà, l’indipendenza e l’autodeterminazione sulla base della legge internazionale e delle risoluzioni Onu: questo è il requisito di ogni scelta in Palestina. Alla luce di questo fatto e delle esperienze pratiche sopra menzionate, la sfida più importante per le élite politiche, sociali e culturali in merito all’iniziativa di settembre risiede nella loro capacità di muoversi nel labirinto degli ultimi vent’anni, con l’obiettivo di sviluppare e migliorare i risultati politici, sociali, economici e culturali per andare incontro alle necessità della liberazione nazionale palestinese e della fine dell’occupazione. Una sfida che non va considerata semplicemente un dibattito legale e giuridico. Per verificare questa equazione, il significato di settembre dipende da due condizioni centrali. Primo: La ricostituzione della strategia nazionale palestinese in accordo con le priorità nazionali ad ogni livello, partendo dal fatto che il popolo palestinese sta ancora vivendo sotto l’ombrello della liberazione nazionale, inclusa l’interazione tra le diverse forme di resistenza e l’unità nazionale come prerequisito. In questo contesto, il compito è innanzitutto la valutazione del risultato politico post Oslo, riconoscendo gli squilibri e il quadro nato da scommesse sbagliate al fine di strutturare un’iniziativa che sia in accordo con gli interessi nazionali palestinesi. Già molto prima che l’iniziativa di settembre si presentasse all’orizzonte, il poeta palestinese Mahmoud Darwish ci aveva avvertito delle drammatiche conseguenze del processo di Oslo, scrivendo: “Israele ha inteso l’implementazione di una falsa pace come mezzo per raggiungere quello che non poteva ottenere attraverso la guerra: l’egemonia regionale e il trattamento del popolo palestinese sotto occupazione come entità isolata. Nel frattempo, i palestinesi hanno esaurito tutta la loro flessibilità nel pagare il più alto prezzo per una mediazione volta non più ad un riconoscimento del loro diritto di creare uno Stato indipendente nel 20% della loro patria storica. E Israele dall’altro lato rifiuta di ritirarsi anche solo di un metro dallo spazio che la leggenda gli avrebbe assegnato e guarda ancora alla nostra esistenza storica nella nostra terra come ad un’occupazione straniera ‘della terra promessa agli ebrei’, per liberarsi di noi e della nostra storia” (Al-dustour newspaper, Jordan, 2002). Secondo: Soddisfare il requisito di ricostruire gli organismi politici palestinesi (OLP e Autorità Palestinese), in accordo con la nuova strategia nazionale. Il primo obiettivo di questa riorganizzazione istituzionale è determinare confini chiari tra i compiti de “la Rivoluzione e l’Autorità Palestinese”, specialmente alla luce delle terribili conseguenze politiche e culturali del processo di mescolanza tra loro. È stato esattamente questo errore intenzionale che ha spinto i due più grandi movimenti politici della recente storia palestinese (Fatah e Hamas) alla crisi attuale, portando prima Fatah e poi Hamas a servire l’Autorità Palestinese e non la strategia di liberazione. Ciò ha condotto ad un cambiamento fondamentale nelle strutture dei due movimenti, così che l’AP ha legato con successo il loro ruolo con i confini stessi dell’AP stabili da Oslo, mentre Hamas e Fatah avrebbero dovuto mantenere il loro compito di mezzi di controllo e di guida per servire la strategia politica di liberazione, senza naturalmente negare il ruolo dell’Autorità Palestinese a livello sociale e civile, al fine di andare incontro ai bisogni del popolo palestinese e di promuovere la pratica democratica all’interno della società. Così la contraddizione tra la lotta nazionale e l’AP è subito nata e è sfuggita presto al controllo. Se le forze politiche avessero mantenuto la giusta distanza dall’AP, il conflitto non sarebbe giunto a minacciare l’unità del popolo palestinese e le sue aspirazioni alla libertà e l’indipendenza. L’incapacità dell’élite politica palestinese nell’affrontare questa equazione ha portato alla divisione della società palestinese e la crisi politica che i palestinesi stanno inutilmente cercando di risolvere dal di fuori sta contribuendo a rendere la realtà palestinese permeabile a interferenze esterne. Da ciò, un base democratica per un’azione politica e sociale deve avere l’obiettivo di assicurare la partecipazione di tutte le forze politiche e sociali a seconda del loro ruolo. Mantenere l’equilibrio tra gli obiettivi della liberazione da una parte e le attività di sviluppo dall’altra di modo che queste ultime possano essere in armonia con i primi senza rappresentare un ostacolo salverebbe i palestinesi dalla trappola degli aiuti esteri, che si sono trasformati in strumenti di ricatto e pressione politica. Questo è il significato dei cambiamenti nel mondo arabo (le rivoluzioni arabe), che devono essere viste come una nuova opportunità per promuovere la lotta di liberazione della Palestina. Questo potenziale processo di ristrutturazione interna, regionale e strategica è quello che teme lo Stato di Israele: perdere i risultati raggiunti facilmente attraverso il processo di Oslo e affrontare le crescenti contraddizioni interne che minacciano la coesione della società israeliana. Questo si verificherà in particolare se l’iniziativa di settembre significherà un ritorno ai riferimenti del diritto internazionale e fornirà un’opportunità ai movimenti politici palestinesi di riorganizzarsi dopo i fallimenti e iniziare di nuovo a muoversi sulla base della legge internazionale. E si verificherà se la crescente angoscia sociale ed economica in Israele, strettamente connessa con i costi dell’occupazione e della militarizzazione, enfatizzerà di nuovo l’importanza di una lotta popolare comune di palestinesi e israeliani come principio guida contro le politiche di esclusione, razzismo e impoverimento che la stessa società israeliana sta soffrendo. In conclusione, il significato dell’iniziativa di settembre non è legato a quello che accadrà perché ogni risultato alle Nazioni Unite sarà determinato dalle relazioni di potere esistenti. Il valore ultimo di questa scelta sta nel fornire un’opportunità per tutti (nel migliore dei casi) per riottenere un equilibrio attraverso il ritorno agli assiomi che dovrebbero guidare le decisioni politiche palestinesi, il punto di partenza di ogni scelta politica: i diritti sociali e nazionali palestinesi in tutte le loro componenti.
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