France Inter Lo stato palestinese è più vicino che mai Non è una certezza ma è più di una possibilità. È in poche parole molto probabile che a settembre, quando si riunirà l’Assemblea generale dell’Onu, una forte maggioranza di stati si pronuncerà come chiesto dall’Autorità Nazionale Palestinese a favore del riconoscimento di uno stato di Palestina all’interno dei confini del 1967. È probabile per quattro ragioni. La prima è che l’immagine di Israele si è considerevolmente deteriorata nel mondo, a causa dell’offensiva contro Gaza, della paralisi del processo di pace e soprattutto della colonizzazione dei Territori occupati. Gli insediamenti hanno continuato a espandersi nonostante Stati Uniti ed Europa abbiano tentato, invano, di porvi fine. La seconda ragione è che l’idea dei due stati è oggi talmente condivisa che perfino Benjamin Netanyahu, primo ministro del governo più a destra della storia di Israele, ha detto di condividerne il principio da quasi due anni. La terza è che gli Stati Uniti considerano, senza dirlo, che la prospettiva di un riconoscimento della Palestina da parte dell’Assemblea generale possa esercitare una pressione positiva su Benjamin Netanyahu. E la quarta è che ormai l’Autorità palestinese ha fatto profonde riforme economiche e politiche in Cisgiordania: un rapporto delle Nazioni Unite appena pubblicato considera poste le fondamenta di un vero e proprio stato. Senza clamori e mentre l’attenzione internazionale si concentra sulla primavera araba, l’intero scenario del conflitto israelo-palestinese potrebbe modificarsi. Non solo un voto del genere sottolineerebbe un isolamento diplomatico di Israele senza precedenti, ma l’occupazione dei Territori palestinesi diventerebbe, da un giorno all’altro, l’occupazione di un paese sovrano riconosciuto dalle Nazioni Unite. A quel punto Israele difficilmente potrebbe evitare delle sanzioni internazionali. Peggio ancora per Israele, un riconoscimento dei confini del ’67 da parte dell’Onu li internazionalizzerebbe e li renderebbe decisamente meno flessibili, mentre finora tutti i piani di pace prevedevano degli scambi di territori per permettere agli israeliani di inglobare gli insediamenti più grandi e ai palestinesi di creare una continuità territoriale tra Gaza e la Cisgiordania. L’eventualità di un voto del genere è diventata quindi una grave preoccupazione per Israele e in primo luogo per il suo primo ministro che cerca, da gennaio, una soluzione per quello che in privato chiama uno “tsunami diplomatico”. In tre mesi Benjamin Netanyahu ha passato in rassegna molte ipotesi. E secondo l’autorevole quotidiano Ha’aretz, l’ultima sarebbe quella di sorprendere il mondo ritirando l’esercito dalle zone occupate della Cisgiordania di cui Israele mantiene il controllo militare ma non amministrativo, e facendo passare sotto controllo amministrativo palestinese una parte delle zone di cui gli israeliani hanno mantenuto il controllo totale. Benjamin Netanyahu spera così di spingere gli occidentali a fare pressioni sui palestinesi perché accettino di riprendere i negoziati bilaterali senza che Israele abbia congelato gli insediamenti. Si vedrà. Quel che è sicuro è che questa scadenza di settembre farà lavorare molto i diplomatici.
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