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20 settembre 2011

L’Illusione dei Due Vicini

L'Esercito, scrive URI AVNERY, ha messo a punto un piano di guerra in sostegno degli insediamenti ebraici. Per dirla in parole povere, si vuole un conflitto per decidere se la Cisgiordania appartiene ai palestinesi o agli occupanti coloni.

Roma, 20 settembre 2011, Nena News (il pacifista ebreo Uri Avnery con lo scomparso leader palestinese Yasser Arafat in una foto degli anni 70)- «Questo sarà il giorno più felice della sua vita?» mi ha chiesto un reporter locale a proposito del prossimo riconoscimento dello Stato di Palestina da parte delle Nazioni Unite. Sono stato colto di sorpresa. «Perché dovrebbe esserlo?» ho replicato. E lui: «Beh, per 62 anni si è battuto per la nascita dello Stato palestinese accanto a Israele e ora eccolo!». «Se fossi un palestinese, probabilmente sarei felice – ho risposto – ma essendo israeliano sono piuttosto triste».

Lasciate che mi spieghi meglio.

Sono uscito dalla guerra del 1948 con quattro solide convinzioni. 1) Un popolo palestinese esiste, nonostante il nome Palestina sia stato cancellato dalle carte geografiche. 2) È proprio con questo popolo palestinese che noi dobbiamo fare la pace. 3) La pace sarà impossibile fino a quando ai palestinesi non sarà permesso di creare il loro stato accanto ad Israele. 4) Senza la pace Israele sarà qualcosa di molto diverso dallo Stato modello che abbiamo sognato nelle trincee.

Mentre, ancora con l’uniforme addosso, mi riprendevo dalle ferite, incontrai diversi giovani, arabi ed ebrei, per preparare il nostro futuro. Eravamo molto ottimisti, tutto sembrava possibile. Immaginavamo un grande gesto di fraternizzazione. Ebrei e arabi si erano battuti coraggiosamente, ognuno lottando per quelle che considerava le proprie aspirazioni nazionali. Ma era arrivato il momento di cercare la pace.

L’idea della pace dopo la battaglia tra due combattenti valorosi è antica quanto la cultura semitica. Nell’epopea scritta più di 3000 anni fa, Ghilgamesh, re di Uruk (oggi in Iraq), combatte contro il selvaggio Enkidu, suo omologo per forza e coraggio, e dopo una battaglia epica i due diventano fratelli di sangue.

Noi abbiamo combattuto duramente e abbiamo vinto. I palestinesi hanno perso tutto. La parte di Palestina che era stata assegnata dall’Onu al loro Stato è stata inghiottita da Israele, Giordania ed Egitto, lasciandoli senza nulla. La metà del popolo palestinese è stata cacciata dalle sue case ed è diventata profuga. Era quello il momento – noi immaginavamo – per il vincitore di stupire il mondo con un atto di magnanimità e saggezza offrendosi, in cambio della pace, di aiutare i palestinesi a mettere su il loro Stato. Poi avremmo forgiato un’amicizia che sarebbe durata generazioni.

Diciotto anni dopo, ho esposto di nuovo questa visione, in circostanze simili. Avevamo conseguito una vittoria sbalorditiva contro gli eserciti arabi nella Guerra dei sei giorni e il Medio Oriente era sotto shock. Se gli israeliani avessero offerto ai palestinesi di fondare il loro Stato, la regione sarebbe stata elettrizzata.

Vi sto raccontando un’altra volta questa storia per evidenziare che quando la soluzione dei «due Stati» fu concepita per la prima volta, dopo la guerra del 1948, essa esprimeva un’idea di riconciliazione, fraternizzazione e rispetto reciproco. Noi immaginavamo due Stati che avrebbero vissuto assieme vicini, con frontiere aperte al libero movimento di persone e merci. Gerusalemme, la capitale comune, avrebbe rappresentato lo spirito del cambiamento storico. La Palestina sarebbe diventata il ponte tra il nuovo Israele e il mondo arabo, uniti per il bene comune. Discutevamo di una «Unione semitica» molto prima che l’Unione europea diventasse realtà.

Quando la soluzione dei due Stati intraprese la straordinaria marcia che la trasformò da visione di un gruppo di outsider (o pazzi), a consenso mondiale, era proprio in questo contesto che la si immaginava. Non un complotto contro Israele, ma l’unica base possibile per una pace vera.

Ma questa soluzione fu respinta fermamente da David Ben-Gurion, a quell’epoca leader indiscusso di Israele, il quale era troppo impegnato a smistare i nuovi immigrati ebrei nelle vaste aree espropriate agli arabi e non credeva in alcun modo alla pace con questi ultimi. Ben-Gurion tracciò il sentiero che, da quel momento in poi, tutti i governi israeliani, compreso quello in carica, hanno sempre seguito.

Da parte degli arabi invece questa visione è sempre stata sostenuta. Già durante la Conferenza di Losanna del 1949, spuntò fuori una delegazione palestinese non ufficiale che in segreto offrì di iniziare negoziati diretti, ma fu respinta bruscamente dal delegato israeliano, Eliyahu Sasson, che prendeva ordini direttamente da Ben-Gurion (come mi raccontò in seguito lui stesso).

Yasser Arafat mi disse più volte – dal 1982 alla sua morte nel 2004 – che avrebbe appoggiato la soluzione «Benelux» che, sul modello dell’unione tra Belgio, Olanda e Lussemburgo, avrebbe incluso Israele, Palestina e Giordania (e, perché no, anche il Libano?).

Spesso si parla di tutte le opportunità di pace che Israele ha perduto durante questi anni. Ma è un discorso che non ha alcun senso: si possono mancare delle opportunità sulla strada verso un obiettivo che si desidera centrare, non nei confronti di qualcosa che si aborrisce.

Ben-Gurion vedeva uno Stato palestinese indipendente come un pericolo mortale per Israele. Perciò raggiunse un accordo segreto con re Abdullah I per spartirsi il territorio assegnato allo Stato arabo di Palestina dal piano di partizione delle Nazioni Unite. Tutti i successori di Ben-Gurion hanno ereditato lo stesso dogma: uno stato palestinese avrebbe costituito una tremenda minaccia. Di conseguenza hanno optato per la cosiddetta «opzione giordana», mantenere ciò che restava della Palestina sotto il tallone del monarca giordano, che non è nemmeno palestinese (né giordano, la sua famiglia è originaria di Mecca).

Questa settimana, l’attuale sovrano di Giordania, Abdullah II, si è infuriato quando gli è stato detto che un ex generale israeliano, Uzi Dayan, ha proposto ancora una volta di trasformare la Giordania nella Palestina, con la Cisgiordania e la Striscia di Gaza come «province» del regno hashemita. Questo Dayan, a differenza di suo defunto cugino, Moshe, è sciocco e tronfio, ma anche un’esternazione da parte di una persona del genere ha fatto infuriare il re, spaventato a morte dal possibile arrivo in Giordania di palestinesi della Cisgiordania.

Tre giorni fa Netanyahu ha detto a Cathy Ashton, la patetica «ministro degli esteri» dell’Unione europea, che accetterà qualsiasi cosa equivalga a poco meno di uno Stato palestinese. Potrebbe suonare strano, dopo lo “storico” discorso fatto meno di due anni fa in cui esprimeva sostegno alla soluzione dei due Stati. Ma forse in quell’occasione pensava allo Stato d’Israele e a quello dei coloni.

Nelle poche settimane che ci separano dal voto alle Nazioni unite, il nostro governo si batterà con le unghie e con i denti contro lo Stato palestinese e gli Stati Uniti lo sosterranno con tutte le loro forze. Questa settimana Hillary Clinton ha battuto ogni suo record di retorica, annunciando che gli Stati Uniti appoggiano la soluzione dei due Stati e perciò alle Nazioni Unite si opporranno a qualsiasi voto che riconosca uno Stato palestinese.

Oltre alle spaventose minacce su cosa succederà dopo il voto alle Nazioni Unite, i leader israeliani e americani ci garantiscono che un voto simile comunque non farà alcuna differenza. Ma se le cose stanno davvero così, perché lo contrastano con tale accanimento?

Certo che ci sarà una differenza: l’occupazione continuerà, ma sarà l’occupazione di uno Stato su un altro Stato. E nella storia i simboli contano. Il fatto che la stragrande maggioranza delle nazioni del mondo avranno riconosciuto lo Stato di Palestina costituirà un altro gradino verso la conquista dell’indipendenza della Palestina.

Cosa accadrà il giorno dopo? Il nostro esercito già annuncia che ha ultimato i preparativi per contrastare manifestazioni di massa dei palestinesi che attaccheranno gli insediamenti. I coloni saranno invitati a mobilitare le loro «squadre di reazione rapida» per contrastare i dimostranti, realizzando le profezie su «un bagno di sangue». A quel punto si muoveranno i soldati, sottraendo ad altri compiti molti battaglioni di truppe regolari e richiamando unità di riservisti.

Qualche settimana fa ho lanciato il campanello d’allarme sui tiratori scelti che avrebbero potuto essere impiegati – come è già accaduto durante la seconda intifada – per trasformare cortei pacifici in qualcosa di molto diverso. Questa settimana è arrivata la conferma ufficiale: i cecchini saranno utilizzati per proteggere le colonie. Tutto ciò equivale a un piano di guerra per gli insediamenti. Per dirla in parole povere, un conflitto per decidere se la Cisgiordania appartiene ai palestinesi o ai coloni.

In un inatteso, comico sviluppo degli eventi l’esercito sta anche fornendo mezzi per disperdere la folla alle forze di sicurezza palestinesi addestrate dagli americani. Le autorità di occupazione si aspettano che queste forze palestinesi proteggano gli insediamenti contro i loro compatrioti. Dal momento che si tratta di forze armate del futuro Stato di Palestina, al quale Israele si oppone, il tutto suona un po’ sconcertante. Secondo l’esercito, ai palestinesi saranno fornite pallottole di gomma e gas lacrimogeni, ma non la «Skunk». Si tratta di un’apparecchiatura in grado di produrre una puzza insopportabile che per lungo tempo resta appiccicata addosso ai manifestanti pacifici. Ho paura che quando si chiuderà questo capitolo, il fetore si attaccherà su di noi e certamente per un lungo periodo non riusciremo a liberarcene.

Ma diamo libero sfogo alla nostra immaginazione almeno per un minuto.

Immaginiamo che nel prossimo dibattito alle Nazioni Unite accada qualcosa d’incredibile: il delegato israeliano dichiara che, dopo opportune valutazioni, Israele ha deciso di votare in favore del riconoscimento dello Stato di Palestina. L’Assemblea resterebbe incredula, a bocca aperta. Dopo un attimo di silenzio scoppierebbe un applauso selvaggio. Il mondo intero sarebbe elettrizzato. Per giorni, i media dell’intero pianeta non parlerebbero d’altro.

Il minuto per la fantasia è scaduto. Torniamo alla realtà. Torniamo alla Skunk.

Traduzione di Michelangelo Cocco