Fonte: GILAD ATZMON: BEING IN TIME
Essere nel tempo Discorso pronunciato a Friburgo nel corso di “Palestina, Israele, Germania: i confini di una conferenza aperta” l’11 settembre 2011 Gentili signori e signore. Inizierò il mio discorso con una confessione inconsueta. Sebbene sia nato in Israele, nei primi trent’anni della mia vita non ne sapevo molto della Nakba, la brutale pulizia etnica della popolazione palestinese avvenuta nel 1948 da parte del neonato stato di Israele. I miei compagni e io sapevamo di un unico massacro, precisamente quello di Deir Yassin, ma non eravamo per niente familiari con la dimensione delle atrocità commesse dai nostri nonni. Credevamo che i palestinesi fossero fuggiti volontariamente. Ci era stato detto che erano scappati e non trovavamo alcuna ragione per dubitare che questa fosse davvero la realtà delle cose. Lasciatemi dire che, in tutti gli anni trascorsi in Israele, non ho mai sentito pronunciare la parola Nakba. Questo vi sembrerà patetico, o persino assurdo, ma non dovreste anche voi chiedervi quando è stata la prima volta che avete sentito la parola Nakba? Forse potete provare anche voi a ricordare quando questo termine è entrato a far parte del vostro lessico. Lasciate che vi aiuti: ho fatto una piccola ricerca tra i miei amici europei e americani della solidarietà palestinese, e molti di loro avevano sentito la parola Nakba solo pochi anni fa, mentre altri hanno ammesso di avere iniziato ad usare loro stessi la parola tre o quattro anni fa. Ma non è questa una situazione leggermente strana? Dopotutto, la Nakba è avvenuta più di sei decenni fa. Come è possibile che solo di recente sia entrato nel nostro ordine simbolico? La risposta è, sotto certi aspetti, piuttosto semplice: essere nel mondo significa essere assoggettato a cambiamenti e trasformazioni. Implica una comprensione e una rivalutazione del passato attraverso diverse consapevolezze presenti. La storia è plasmata e riplasmata nel corso del tempo. Di conseguenza, sembriamo comprendere l’espulsione e la difficile situazione dei palestinesi con la nostra attuale comprensione della brutalità di Israele: alla luce della distruzione che Israele ha lasciato dietro di sé in Libano nel 2006, seguita dalla nostra testimonianza dei crimini di genocidio commessi a Gaza nell’”operazione Piombo Fuso” e dall’osservazione delle riprese dell’uccisione da parte dell’IDF degli attivisti pacifisti sulla Mavi Marmara, conseguentemente siamo riusciti a correggere la nostra idea della grandezza della tragedia palestinese del 1948. Comprendendo più pienamente quello di cui sono capaci gli israeliani, siamo anche capaci di ricostruire la nostra visione del “peccato originale” di Israele, ossia la Nakba. Siamo capaci di provare un’empatia più profonda con i palestinesi espulsi nel 1948 grazie alla nostra comprensione attuale e in evoluzione di Israele, degli israeliani, dell’”israelianità”, del nazionalismo ebraico, del sionismo globale e della persistente lobby israeliana. Il significato e il valore di tutto ciò diventano più chiari, il passato è lungi dall’essere un insieme ben sigillato di eventi con un preciso significato, predeterminato in modo statico e poi escluso dalla possibilità di dibattito. Al contrario, la nostra interpretazione del passato viene plasmata e trasformata, costantemente, mentre procediamo e aumentano la nostra conoscenza e la nostra esperienza. E, dato che molta della realtà attuale è plasmata dalla nostra visione del mondo, anche il passato viene plasmato e riplasmato, visto e rivisitato dalle narrazioni che ci capita di seguire in un dato momento temporale. Questo è il vero significato dell’”essere nel tempo”; è questa l’essenza della temporalità e questo è tutto il senso del pensiero storico. Le persone possiedono la capacità di “pensare storicamente” e di essere trasformate dal passato, ma anche di permettere al passato di essere costantemente plasmato, e riplasmato, mentre procedono verso l’ignoto. Il ricordo di Deir Yassin Ma qui c’è un insieme interessante di aneddoti storici che meritano la nostra attenzione: certamente, si potrebbe rimanere perplessi nell’apprendere che, appena tre anni dopo la liberazione di Auschwitz nel 1945, l’appena fondato stato di Israele abbia effettuato una pulizia etnica di gran parte della popolazione indigena della Palestina (1948). Solo cinque anni dopo la sconfitta del Nazismo, lo stato israeliano ha emanato leggi del ritorno discriminatorie dal punto di vista razziale per impedire che i rifugiati palestinesi del 1948 ritornassero nelle loro città, nei loro villaggi, campi e frutteti. Queste leggi, tuttora in vigore, non erano categoricamente differenti dalle note leggi razziali di Norimberga. Ci si potrebbe anche stupire nello scoprire che Yad Vashem, il museo dell’Olocausto israeliano, sia situato sul territorio confiscato del villaggio palestinese di Ein Karem, accanto a Deir Yassin, che è probabilmente il simbolo definitivo della Shoah palestinese. Ci si potrebbe chiedere quale sia la causa fondamentale di questa assenza di compassione istituzionale, che è stata esibita e mantenuta da Israele e dagli israeliani per decenni. Ci si potrebbe aspettare che gli ebrei, essendo stati essi stessi vittime dell’oppressione e della discriminazione, sarebbero stati i primi a combattere contro il male e il razzismo. Ci si potrebbe aspettare che le vittime della discriminazione si astenessero dall’infliggere dolore agli altri. Tuttavia, vengono in mente alcune domande ben più generali e profonde: come è possibile che il discorso politico e ideologico israeliano non sia riuscito evidentemente a trarre le ovvie e necessarie lezioni morali dalla storia e dalla storia ebraica in particolare? Come è possibile che, nonostante la “storia ebraica” sembri essere una storia infinita di sofferenza per gli Ebrei, lo stato ebraico sia così cieco nei confronti del dolore che infligge agli altri? Alla luce dei fatti, ciò che vediamo è una forma di alienazione dal pensiero storico. Lo storico israeliano Shlomo Sand ha notato che il giudaismo rabbinico potrebbe essere realizzato come un tentativo di sostituire il pensiero storico: al posto della storia la torah ha fornito al giudaismo rabbinico un trama spiritualmente guidata. Ha creato un’immagine di scopo e di destino. Tuttavia le cose sono cambiate nel XIX secolo. A causa della rapida emancipazione del popolo ebraico europeo insieme all’ascesa del nazionalismo e allo spirito dell’Illuminismo, gli ebrei europei assimilati si sono sentiti costretti a ridefinire le loro origini in termini secolari, nazionali e razionali. È così che gli ebrei si sono “inventati” come “popolo” e come “classe”: in modo analogo ad altre nazioni europee, gli ebrei hanno sentito la necessità di avere una narrazione coerente di loro stessi e della loro storia. Inventare la storia non è un crimine, i popoli e le nazioni lo fanno spesso. Eppure, nonostante il rapido processo di assimilazione, l’ideologia e la politica secolare ebraica non sono riuscite a racchiudere il reale significato del pensiero storico e della comprensione storica. Certo, l’ebreo secolare assimilato è riuscito facilmente a lasciar cadere Dio e gli altri simboli religiosi. E tuttavia, almeno politicamente, l’ebreo assimilato non è riuscito a sostituire la divinità con una comprensione alternativa ebraica antropocentrica, secolare, etica e metafisica. Temporalità e alienazione Ho capito solo recentemente che “il discorso politico dell’identità ebraica” non solo è alieno dalla storia, non è solo effettivamente antagonista al pensiero storico, ma è anche distaccato dalla nozione di temporalità. La temporalità è inerente alla condizione umana: “essere” significa “essere nel tempo”. Che ci piaccia o meno, siamo destinati a oscillare tra un passato che sta svanendo nel nulla e l’ignoto che procede dal futuro verso di noi. Attraverso il presente, il cosiddetto “qui e ora”, meditiamo su ciò che è passato. Occasionalmente, speriamo nel perdono; e a volte siamo rallegrati da un ricordo piacevole. Altre volte siamo in conflitto con noi stessi per non aver reagito in modo appropriato in qualche momento del nostro passato. E di tanto in tanto potremo ricordare la sensazione dell’amore. Nel presente possiamo anche intravedere il futuro e nella consapevolezza di tale presenza potremo provare il senso di timore per l’ignoto. Ma possiamo anche provare impeti di felicità e ottimismo quando il futuro sembra sorriderci. Più spesso che non, impariamo lezioni dal passato. Ma ben più cruciale e interessante è forse l’idea che un futuro immaginario possa facilmente riscrivere o persino riplasmare il passato. Cercherò di illustrare questa sottile idea attraverso un semplice e ipotetico, eppure terrificante, scenario di guerra. Ad esempio, possiamo facilmente immaginare una situazione terrificante in cui un attacco cosiddetto “preventivo” israeliano contro l’Iran potrebbe trasformarsi in un disastroso conflitto nucleare, in cui morirebbero decine di milioni di persone in Medio Oriente e in Europa. Immagino che, tra i pochi sopravvissuti a un tale ipotetico scenario da incubo, alcuni potrebbero essere abbastanza coraggiosi da dire che “cosa pensano realmente” dello stato ebraico e delle sue intrinseche tendenze omicide. Quanto detto è ovviamente un’eventualità terrificante e in nessuna maniera auspicabile, tuttavia una tale visione di un “possibile” sviluppo dovrebbe impedire l’idea di un’aggressione israeliana o sionista nei confronti dell’Iran. Ma come sappiamo, questo capita raramente: gli ufficiali israeliani minacciano di radere al suolo e bombardare l’Iran fin troppo spesso. Apparentemente gli israeliani e i sionisti in tutto il mondo non riescono a vedere le proprie azioni all’interno di una prospettiva o di un contesto storico. Non riescono a valutare le proprie azioni in base alle conseguenze. Da una prospettiva etica, lo scenario “immaginario” sopradescritto potrebbe o dovrebbe impedire a Israele persino di contemplare qualsiasi attacco contro l’Iran. Ciononostante, quello che vediamo in pratica è il perfetto opposto: Israele non perde un’opportunità di minacciare l’Iran. La mia spiegazione è semplice. Il discorso politico e ideologico ebraico è alieno alla nozione di temporalità. Israele è cieco alle conseguenze delle proprie azioni; pensa solo alle sue azioni in termini di pragmatismo a breve termine. All’interno del discorso politico ebraico la freccia del tempo è una strada a senso unico. Va avanti, ma non torna mai indietro. Non c’ è mai un tentativo di rivedere il passato alla luce di un possibile futuro. Invece della temporalità, Israele pensa in termini di un presente esteso. Ma Israele è solo una parte del problema. La lobby israeliana è anche cieca nei confronti del disastro immanente che porta agli ebrei della Diaspora. Come Israele, la lobby pensa solo in termini di guadagno a breve termine. Cerca sempre più potere. Non si guarda mai indietro, e mai si pente. In breve, la nozione di temporalità è la capacità di accettare che il passato è “elastico”. La nozione di temporalità permette alla freccia del tempo di muoversi in entrambe le direzioni. Dal passato in avanti, come pure dal futuro (immaginario) all’indietro. La temporalità permette al passato di essere plasmato e rivisto alla luce di una ricerca di significato. La storia e il pensiero storico sono la possibilità di ripensare il passato. L’etica è legata alla temporalità, poiché l’etica è l’abilità di giudicare e riflettere su questioni che trascendono il “qui ed ora”. Pensare eticamente significa produrre un giudizio di principio che regge la prova del tempo. Guardare al passato In misura significativa, quindi, l’abilità di rivedere la propria prospettiva e la comprensione del passato è la vera essenza del pensiero storico, ci consente di riplasmare la nostra comprensione del passato attraverso la consapevolezza di una prospettiva futura immaginaria, e viceversa. Pensare storicamente diventa un evento significativo una volta che la nostra esperienza passata ci permette di intravedere un futuro migliore. Dunque il revisionismo è impregnato della più profonda possibile comprensione della temporalità, e pertanto è inerente all’umanità e all’umanesimo. Ed è ovvio che chi si oppone a un giusto e aperto dibattito storico sta operando non solo contro le fondamenta dell’umanesimo, ma anche contro l’etica. Tuttavia in Israele alcuni legislatori insistono che la commemorazione e il dibattito storico della Nakba debbano diventare illegali. E, cosa interessante, gli ebrei e i sionisti si oppongono anche a qualsiasi tentativo di decostruzionismo e di revisione del passato ebraico. Io, ad esempio, sono stato etichettato di recente “antisemita” per aver suggerito che il sionismo non è colonialismo. Nel caso non ne foste a conoscenza, questa conferenza è stata soggetta a una forte pressione da parte di alcuni prominenti antisionisti ebrei, che hanno insistito nell’impedire ogni discussione sulla storia della sofferenza degli ebrei. Ma presumo che ora sia ben chiaro che la mia posizione filosofica non è molto lusinghiera nei confronti del discorso politico e ideologico ebraico. Eppure, va detta la verità: il discorso politico ebraico si oppone apertamente a qualsiasi forma di revisionismo. La politica ebraica è preposta a fissare e cementare una narrativa e una terminologia. Sebbene l’ideologia sionista si presenti come un racconto storico, mi ci sono voluti molti anni per capire che il sionismo, la politica e l’ideologia dell’identità ebraica sono stati chiari assalti rivolta alla storia, alla nozione di storia e di temporalità. Il sionismo, in effetti, non fa altro che emulare un discorso storico. In pratica, il sionismo, come le altre forme del discorso politico ebraico, sfida ogni forma di discussione storica. Perciò, coloro che seguono le ideologie politiche ebraiche e sioniste sono destinati ad allontanarsi dall’umanesimo, dall’umanità e dalla condotta etica. Una tale spiegazione potrà chiarire la condotta criminale israeliana e il sostegno istituzionale ebraico per Israele. È ormai tempo di autoriflessione Inventare un passato, come suggerisce Shlomo Sand, non è la questione più preoccupante quando si tratta di Israele e del sionismo. I popoli e le nazioni tendono infatti a inventare il loro passato. Ma celebrare il proprio passato fantasma a spese di altri è ovviamente una questione etica preoccupante. Ma nel caso di Israele il problema è più profondo. È il tentativo di sigillare gli “ieri” che hanno portato al crollo etico collettivo di Israele e dei suoi sostenitori. Tuttavia, per quanto ami criticare Israele e il sionismo, devo anche chiedervi di fare un’autoriflessione. Tristemente, Israele non è solo. Come è tragicamente evidente, anche l’America e la Gran Bretagna sono riuscite volontariamente a rinunciare alla temporalità. È la mancanza di un vero discorso storico che ha impedito alla Gran Bretagna e all’America di comprendere il loro futuro, il presente e il passato. Come nel caso della “storia” ebraica, i politici americani e britannici insistono su un racconto storico semplicistico e binario sulla Seconda Guerra Mondiale, sulla Guerra Fredda, sull’Islam e sugli eventi dell’11 settembre. Tragicamente, il genocidio criminale anglo-americano in Iraq e in Afghanistan, meglio conosciuto come “Guerra al Terrore”, è la continuazione della cecità auto-inflitta. Dato che la Gran Bretagna e l’America non sono riuscite a comprendere il messaggio necessario dai massacri di Amburgo e Dresda, Nagasaki e Hiroshima, non c’è stato niente che potesse fermare l’imperialismo anglo-americano dal commettere crimini similari in Corea, in Vietnam, in Afghanistan e in Iraq. E voi, miei cari tedeschi? Che ne pensate del vostro passato? Siete liberi di guardare dentro il vostro passato e di riplasmarne la comprensione? Non lo credo. La vostra storia, o per lo meno alcuni suoi capitoli, sono stati sigillati da qualche legge rigida e per questo voi che fate parte delle generazioni più giovani non cercate di afferrare il vero significato etico dell’Olocausto. Chiaramente i tedeschi non capiscono che i palestinesi sono in realtà le ultime vittime di Hitler, perché senza Hitler non ci sarebbe uno stato ebraico. Le vostre giovani generazioni non riescono a vedere che i palestinesi sono certamente le vittime di un’ideologia come quella nazista, che è sia razzista sia espansionista. Lasciate che vi dica, se qualcuno di voi si sente colpevole di qualunque cosa che abbia a che vedere con il vostro passato, che sono i palestinesi quelli di cui dovreste preoccuparvi. Il fatto che la Germania si sia distaccata dal suo passato spiega chiaramente la complicità politica tedesca con i crimini sionisti. Certamente spiega perché il vostro governo fornisce di tanto in tanto a Israele sottomarini nucleari. Ma spiega anche perché riusciate a rimanere in silenzio nel momento in cui venite a conoscenza del fatto che Yad Vashem è stato costruito su terra palestinese rubata nel 1948. Ma non si tratta solo di Israele, sionismo, Gran Bretagna, America e Germania. Guardiamo a noi stessi, i sostenitori di Justice in Palestine. Persino all’interno del nostro movimento, abbiamo elementi distruttivi che insistono a dire che non dovremmo azzardarci a toccare il passato: il mese scorso, il Café Palestine Freiburg e l’organizzatore di questa conferenza sono stati oggetto di un costante attacco da parte di alcuni importanti personaggi del movimento ebraico “antisionista”. Pretendevano una mia esclusione dalla conferenza perché sarei uno che “nega l’Olocausto”. Non c’è bisogno di dire che non ho mai negato l’Olocausto, né altri capitoli storici. Trovo anche senza senso la nozione di “negazione dell’Olocausto”, a un passo dall’idiozia. Insisto comunque, come ho fatto oggi, che la storia debba rimanere un discorso aperto, soggetto a cambiamenti e revisioni; mi oppongo a qualsivoglia tentativo di sigillare il passato, sia che si tratti della Nakba, dell’Olocausto, dell’Holodomor (genocidio ucraino docuto alla carestia tra il 1929 e il 1933, NdT) o del genocidio armeno. Sono convinto che una comprensione organica ed “elastica” del passato sia la vera essenza di un discorso umanista, dell’universalismo e dell’etica. Chiaramente, non so come salvare Israele da sé stesso, non so come liberare gli ebrei antisionisti dalla loro ideologia giudeo-centrica; ma, per quanto riguarda l’America, la Gran Bretagna, la Germania, l’Occidente e noi oggi qui presenti, tutto quello che dobbiamo fare è ritornare ai nostri preziosi valori dell’apertura. Dobbiamo allontanarci da una Gerusalemme restrittiva e monolitica e ripristinare lo spirito etico dell’Atene pluralista.
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