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17 maggio 2011

Diritto al Ritorno: Il Dramma di 7,5 Milioni di Profughi
di Emma Mancini

Gerusalemme, 17 maggio 2011, Nena News – Negli anni, il problema del diritto al ritorno è stato messo in un angolo da negoziati e processi di pace, non solo da parte israeliana. Per l’Autorità Palestinese si tratta di una spina nel fianco, di un boccone troppo amaro per essere digerito. E se il diritto internazionale parla chiaro (ogni rifugiato ha diritto a fare ritorno nella propria terra di appartenenza, in questo caso la Palestina storica), la soluzione al problema si fa sempre più distante.

In occasione delle commemorazioni per il 63° anniversario della Nakba, ricordare i numeri del trasferimento e l’espulsione di sette e milioni e mezzo di palestinesi dalle proprie case e le proprie terre è utile a comprendere quanto difficile sia affrontare il tema del diritto al ritorno. A guidarci Akram Salhab, membro di Badil, associazione palestinese per il diritto alla residenza e al ritorno. “La politica israeliana del trasferimento forzato ha tre diversi obiettivi, strettamente collegati tra loro: il controllo esclusivo della terra, la riduzione al minimo dei palestinesi residenti e la pulizia etnica”.

Una pulizia etnica iniziata nel 1947 con l’espulsione di 750mila palestinesi, cacciati oltre i confini, in Siria, Libano, Iraq e nei nuovi territori di Gaza e Cisgiordania. Dopo la guerra dei Sei Giorni, nel 1967, il numero di rifugiati è cresciuto in maniera esponenziale: 400mila palestinesi, circa il 35% dell’intera popolazione dei Territori Occupati, è stata espulsa dalla propria terra. “E oggi il cosiddetto ‘quiet transfer’ – spiega Akram – prosegue con mezzi nuovi: espansione degli insediamenti israeliani illegali, demolizione delle case palestinesi, violenze dei coloni e revoca del diritto di residenza in Gerusalemme Est”.

Nel tempo, i palestinesi rifugiati nei Paesi arabi confinanti si sono moltiplicati: in 63 anni le famiglie si sono allargate e con loro i campi profughi. Quattro milioni e mezzo i rifugiati del 1948 registrati all’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che tutela i profughi palestinesi, a cui va aggiunto un altro milione e mezzo di rifugiati non registrati. Poco meno di un milione i profughi del 1967, 338mila i rifugiati interni in Israele e 115mila quelli nei Territori Occupati. Totale: sette milioni e mezzo.

L’opzione della creazione di due Stati come soluzione al dramma palestinese è spesso oggetto di discussione. “In teoria – continua Akram – non c’è contraddizione tra il diritto al ritorno e la soluzione dei due Stati. Ma nella pratica è inapplicabile: lo Stato di Israele si fonda su base etnica, si auto-definisce Stato ebraico. Ciò significa che Tel Aviv non accetterà mai il riconoscimento del diritto al ritorno ai palestinesi che vivevano nell’attuale territorio israeliano. Per questo, Israele non intende negoziare su questo punto: il basilare diritto al ritorno è sempre stato messo in un angolo dai processi di pace. D’altra parte, la questione è un dilemma anche per l’Autorità Palestinese: come ‘scegliere’ i rifugiati che avrebbero diritto a rientrare nelle proprie terre? Solo quelli del 1948? Solo quelli del 1967? O entrambi?”.

Impossibile garantire il diritto attraverso una simile soluzione. E la possibile dichiarazione d’indipendenza dello Stato palestinese a settembre da parte delle Nazioni Unite confonderà ancora di più le carte: “In merito ai rifugiati, un tale riconoscimento preoccupa l’Autorità Palestinese soprattutto per il futuro dei rapporti con l’OLP, il primo strumento di lotta dei profughi palestinesi. La questione che si pone è che tipo di rapporto potrebbe instaurare l’OLP con uno Stato palestinese indipendente”. Nena News

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