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Nati e morti ai check-point militari israeliani Le restrizioni di movimento a cui è sottoposto il popolo palestinese sono pratica quotidiana nei Territori Palestinesi Occupati. Ma nel caso di emergenze mediche queste restrizioni possono essere questione di vita o di morte. “Ogni giorno ci sono persone malate che devono attraversare il check-point. Coloro che non sono in grado di camminare hanno bisogno di un coordinamento speciale con gli israeliani, così come tutti coloro che devono passare il check-point di notte, quando è chiuso. Prima del muro di separazione ci mettevamo 15 minuti per raggiungere Jenin, ora invece più di un'ora”. Con questa parole Abu Rami, membro del Consiglio di Barta'a, responsabile dell'assistenza dei malati, ha descritto le dure condizioni in cui sono costretti a vivere gli abitanti di questo villaggio dopo la costruzione del muro di separazione. Barta'a si trova nel nord della Cisgiordania, a pochi chilometri dalla città di Jenin, ma è stata tagliata fuori dal muro: ora sorge nella “Seam Zone”, l'area racchiusa tra il muro di separazione e la Linea Verde. In quest'area vivono circa 33000 palestinesi, residenti in 36 diverse comunità. Per accedere agli altri villaggi della Cisgiordania, e quindi anche per ricevere l'assistenza sanitaria, queste persone sono costrette ad attraversare un check-point. E a subire tutto ciò che ne consegue. “Aiutare le persone ad attraversare il check-point in condizioni di emergenza fa parte del mio lavoro, ma purtroppo ho ricordi molti brutti legati a questa esperienza” ha continuato Rami ricordo come se fosse ieri il giorno in cui è morta mia madre. Stava male da tempo, ma improvvisamente durante il giorno le sue condizioni sono peggiorate. Ho contattato gli israeliani per ottenere il permesso di far partire un'ambulanza da Jenin. In 20 minuti l'ambulanza è arrivata, siamo partiti alla volta del check-point ma lì le autorità israeliane hanno iniziato a perquisire il veicolo e poi ci hanno rispedito indietro. Molto probabilmente erano di mal umore”. Rifiuto che è stato fatale. “Dopo varie contrattazioni, ho avuto il permesso di trasportare mia madre all'ospedale di Jenin con la mia auto. Ma tempo prezioso era stato sprecato. Mia madre è morta poco dopo aver attraversato il check-point. E persino tornando verso casa i soldati hanno perquisito a lungo l'auto, con mia madre morta all'interno. E' stato terribile”. E anche con le donne gravide il trattamento è il medesimo. “Le donne nelle ultime settimane di gravidanza lasciano le proprie case molti giorni prima della data del parto per essere sicure di arrivare in tempo in ospedale” ha aggiunto Rami. Infatti secondo uno studio realizzato a luglio 2011 dalla rivista medica inglese Lancet, tra il 2000 e il 2007 il 10% delle donne palestinesi incinte ha subito dei ritardi mentre si recava in ospedale per partorire. Di conseguenza si è registrato un drammatico aumento del numero di parti in casa, poiché le donne, per paura di non arrivare in ospedale in tempo, preferivano partorire in casa. L'autrice della ricerca, Halla Shoabi dell'Università americana Ann Arbor, ha calcolato che in questo arco di tempo 69 bambini sono nati presso i check-point militari israeliani. Inoltre 6 giovani madri e 5 bambini sono morti, una conseguenza che secondo Halla rappresenta un crimine contro l'umanità. Le restrizioni di movimento imposte dalle autorità israeliane sulla popolazione palestinese provocano infatti, come conseguenza diretta,una violazione dei altri diritti umani fondamentali, come ad esempio il diritto alla salute e spesso conducono ad esiti fatali. “Sono stato male una notte” ha raccontato M. H., un ragazzo palestinese del campo profughi di Aida (area di Betlemme) ma non c'era nessun amico che potesse accompagnarmi all'ospedale perchè nessuno aveva il permesso per arrivare a casa mia”. M. abita a cento metri dal campo di Aida, ma il muro di separazione lo ha tagliato fuori dal resto della Cisgiordania. Ora per andare a trovare i suoi genitori è costretto a camminare per più di mezz'ora e ad attraversare il terribile check-point di Betlemme. E' totalmente separato dai suoi amici che non hanno il permesso di passare al di là del posto di blocco di Betlemme. “Per fortuna mi ha aiutato una mia amica spagnola, senza di lei non sarei riuscito ad arrivare all'ospedale. Il dottore mi ha detto che se fossi arrivato due ore più tardi, avrei rischiato di avere conseguenze irrimediabili”. I principali servizi medici specialistici sono concentrati a Gerusalemme Est , tuttavia essi sono inaccessibili per la maggior parte della popolazione palestinese. Le restrizioni di accesso alla città santa sono iniziate ben prima la costruzione del muro di separazione. Già a partire dal 1993 tutti i palestinesi che non avevano la cittadinanza israeliana o la residenza a Gerusalemme Est erano obbligati a chiedere un permesso speciale per accedere alla città. E la stessa cosa valeva per i permessi sanitari. Un sistema lungo e complesso per vedere il proprio diritto alla salute riconosciuto. Spesso i permessi non venivano concessi agli uomini di età compresa tra i 15 e i 30 anni, “per motivi di sicurezza”. E anche chi riusciva ad ottenerlo poteva stare a Gerusalemme per un periodo molto limitato di tempo, e spesso i familiari non avevano il permesso. La situazione è precipitata a partire dal 2007, dopo la costruzione del muro intorno a Gerusalemme: ora l'accesso alla città santa, e quindi alle cure mediche, è molto più limitato e anche per i pochi fortunati che lo ottengono, le file ai check-point sono interminabili, specialmente di mattina. Secondo i dati della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese (PRCS), nel 2009 sono stati registrati 440 casi di ritardo o di blocco delle ambulanze presso i check-point dei Territori Palestinesi Occupati - e due terzi sono avvenuti presso i posti di blocco che conducevano a Gerusalemme. Ed il problema non riguarda solo i malati ma anche il personale medico: molto spesso i medici e gli infermieri che vivono in Cisgiordania arrivano in ritardo al proprio posto di lavoro a Gerusalemme a causa delle lunghe attese e dei ritardi ai check-point. “Il 70% delle nostre infermiere vengono dalla Cisgiordania e i casi di ritardo sono quotidiani. Il problema principale ai posti di blocco è che spesso non viene riconosciuta l'impronta digitale. Proprio una settimana fa due dottori e un'infermiera sono stati rimandati a casa perché la loro impronta non è stata riconosciuta” ha raccontato Salam Kana'an, direttrice del reparto di infermieristica della clinica ostetrica del PRCS. Ritardi che troppo spesso portano a conseguenze fatali.
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