http://it.peacereporter.net Beati i costruttori di Stati Quella israeliana non è un'occupazione, in realtà, ma una guerra: e il processo di pace solo un'arma del suo arsenale. A due mani, Noam Chomsky e Ilan Pappé riesaminano la questione palestinese La prima esplosione dell'operazione Piombo Fuso ha polverizzato gli allievi dell'accademia di polizia di Gaza. "In caso di attacco", hanno spiegato i consiglieri giuridici dell'esercito israeliano, "sarebbero stati una forza di resistenza". Una singolare interpretazione preventiva del principio di distinzione tra civili e combattenti, osserva Chomsky: un po' come se Hamas qualificasse legittimo obiettivo militare i riservisti che cenano davanti la televisione. Ma secondo il New York Times, è così che la guerra è stata vinta già in un paio di ore: "i palestinesi hanno recepito il messaggio". Vedi alla voce: guerra. Perché ufficialmente Israele ha (re)agito per fermare il lancio di razzi - e ripristinare così la sua aura di invincibilità, impaludatasi in Libano contro Hezbollah. In realtà, l'operazione Piombo Fuso è arrivata al culmine di tre anni di strangolamento economico: un embargo con cui l'Unione Europea e gli Stati Uniti, non solo Israele, hanno intenzionalmente negato a Hamas l'opportunità e il diritto di governare, e costituire un'alternativa a Fatah, consolidando a livello nazionale quella fama di trasparenza e efficienza guadagnata in decine di amministrazioni locali. La tempistica dell'attacco suggerisce poi un obiettivo immediato: sventare un imminente accordo di unità nazionale tra Hamas e Fatah - sventare il profilarsi, di là dal Muro, di qualcuno con cui parlare. Una strategia compendiata nella cosiddetta Dottrina Dahiya, dal nome di un quartiere sciita di Beirut falciato via nell'ultima guerra: abbattersi sulla popolazione civile con violenza sproporzionata e indiscriminata, costringerla a un senso costante di vulnerabilità, e a lunghi, costosi processi di ricostruzione, perché, affamata e esausta, isoli i movimenti islamici affidandosi a uomini più ragionevoli - come quelli ritratti dai Palestine Papers. E d'altra parte la violenza come "strumento di pedagogia", per dirla con Thomas Friedman, non è un'idea nuova, per Israele: ed è anche un'idea di successo, aggiunge Chomsky: è esattamente la logica dell'Undici Settembre come tentativo di educare gli Stati Uniti. Secondo Zeev Schiff, tra i più autorevoli analisti militari israeliani, "l'esercito dal 1948 ha sempre colpito consapevolmente la popolazione civile". Da qui il sottotitolo del libro, Riflessioni sulla guerra di Israele contro i palestinesi: perché parlare ancora di occupazione ormai non ha senso né giuridicamente né politicamente. L'occupazione è per definizione un regime provvisorio in attesa di un accordo tra le parti - il famoso "terra in cambio di pace". Ma sono quarant'anni, ormai: la strategia di Israele è evidentemente un'altra. Il pensiero debole. Eppure, obiettava già Sun Tzu, "il più abile non è chi in cento battaglie riporta cento vittorie: il più abile è chi sottomette l'avversario senza battaglia". Il potere è tanto più saldo quanto meno è visibile: e la necessità, per Israele, di ricorrere periodicamente allo "splendore del supplizio" di medioevale memoria, è segno inequivoco della sua debolezza. Perché la verità, sostiene Pappé, è che Israele non ha alcuna strategia per la Striscia di Gaza. Ha dei progetti molto chiari per la West Bank: appropriarsi di quelle sue parti che valuta fondamentali, e cioè essenzialmente inglobare la maggioranza dei coloni e delle riserve idriche, e per il resto impedire la formazione di uno stato palestinese realmente sovrano frantumando quanto rimane in ghetti sconnessi, in modo che i residenti residui siano indotti, volontariamente, a trasferirsi altrove, o sia possibile un giorno unirli alla Giordania - ma nella Striscia di Gaza una strategia di questo tipo, incardinata sull'addomesticamento dell'Autorità Palestinese, è impraticabile. Spazi troppo ristretti per essere paralizzati da un reticolo di insediamenti e checkpoint: e soprattutto, nessun hinterland verso cui espellere la popolazione. L'Egitto, d'altra parte, ha sempre dichiarato il suo disinteresse per un'area così povera e sovraffollata: l'unica è la strategia, o più correttamente la tattica, di breve respiro, della privazione e punizione, per forzare i palestinesi a abdicare alla resistenza e rovesciare Hamas - "regolarmente descritta come sostenuta dall'Iran, con l'obiettivo della distruzione di Israele", nota Chomsky, "mai come: Hamas, democraticamente eletta, che da tempo propone la soluzione bistatuale in conformità al diritto internazionale - una soluzione bloccata per oltre trent'anni da Israele e gli Stati Uniti". Una volta rimossi i coloni, eliminato l'ostacolo della loro presenza, Israele ha serrato la tenaglia, controllando la Striscia di Gaza dall'esterno con una combinazione di chiusura delle frontiere e incursioni sempre più ampie, e lunghe e violente. Il titolo dell'edizione italiana del libro, Ultima fermata Gaza (edizioni Ponte alle Grazie, 2010), è più espressivo dell'originale, il semplice Gaza in crisis: quella relativa a Gaza, conclude Pappé, è una politica genocida, oltre la quale non rimane altro - nel senso: ulteriore violenza. L'arma della pace. E tutto questo è esito non dell'implosione, ma all'opposto, dell'attuazione del processo di Oslo. Non solo per la dubbia competenza, prima ancora che dubbia onestà, delle delegazioni palestinesi: il problema dei negoziati è nella loro impostazione e struttura. Intanto l'idea stessa di un processo, invece che un accordo: un processo che Israele intenzionalmente incaglia e protrae per costruire nuovi insediamenti e imporre la sua geografia, rendendo il futuro stato palestinese ogni giorno più indistricabile. Secondo l'approccio realista del Dipartimento di Stato americano, la soluzione di un conflitto è inscritta nei suoi rapporti di forza: ogni mediazione deve dunque incanalarsi lungo la prospettiva della parte dominante: più precisamente, della componente moderata della parte dominante, e cioè, in Israele, la prospettiva di quanti oppongono l'opzione bistatuale al sogno massimalista della destra. Un'opzione, per definizione, per cui tutto è cominciato nel 1967. Ma la rimozione della nakbah, contesta Pappé, non solo induce a dimenticare milioni di rifugiati, deportando così dalle trattative la maggioranza dei palestinesi: soprattutto, la nakbah è ideologia, oltre che storia - è il 1948: ma è anche, da allora, la percezione diffusa, tra gli israeliani, di un lavoro da completare, di risultati da presidiare: di uno Stato che per essere ebraico deve avere una demografia saldamente ebraica, anche a costo della democrazia. Per Chomsky e Pappé, il vero limite del processo di pace è questo: la sua interpretazione del conflitto. Perché invece l'idea dello Stato unico è sempre esistita: e non solo in sionisti come Martin Buber, che chiamavano alla coesistenza con gli arabi: lo stato unico fu anche raccomandato da un rapporto di minoranza della commissione delle Nazioni Unite che poi redasse il Piano di Partizione. Ed è ancora oggi, per Chomsky e Pappé, un imperativo morale prima che politico. Molti, infatti, si sono convertiti allo Stato unico denunciando ormai l'impossibilità materiale di fondare uno Stato in quello che avanza tra un insediamento e l'altro: ma lo Stato unico è il solo capace di tutelare la pluralità culturale e religiosa che ha storicamente caratterizzato la società palestinese. Non è solo un realismo più realista di quello americano, dunque, ma un realismo più vero: perché più largo - un realismo capace di includere anche le ragioni dell'Altro. Beati i costruttori di Stati. L'opzione binazionale, nell'epitaffio di Uri Avnery, è "un mistero istituzionale". Ma proprio per questo, rilancia Pappé, la priorità è cominciare a discutere di temi concreti, invece che di identità: studiare il destino degli insediamenti, per esempio, il ritorno dei rifugiati: disegnare l'assetto costituzionale e istituzionale del nuovo stato. D'altra parte, chiunque conosca Israele e Palestina sa che uno stato unico esiste già: si tratta solo, adesso, di cambiarne la natura. E a quanti temono che il sostegno americano a Israele sia un ostacolo insormontabile, Pappé risponde con una articolata ricostruzione della sua evoluzione e delle sue origini - più complesse dell'esistenza della cosiddetta, generica, lobby ebraica. Per scoprire che questo sostegno non è sempre stato granitico, che gli attori in gioco sono tanti, e tante, dunque, le possibilità di intervento e cambiamento. Il futuro, in fondo, ha i confini della nostra immaginazione.
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