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Martedì 01 Marzo 2011 16:44

Piazza del Popolo come Piazza Tahrir, beh, vale la pena provarci, almeno,
sarà sempre meglio che deprimersi davanti alla tv
di Pierluigi Sullo

Siamo onesti: quanti di noi, gente di sinistra amante dei popoli variamente oppressi o affamati, dagli indigeni latinoamericani ai contadini dell’Africa occidentale, non hanno guardato con scetticismo agli arabi del Maghreb? I libici ingrassati dal petrolio e complici di Gheddafi, i tunisini quinta delle loro località turistiche, i marocchini obiettivamente complici degli aggressori del popolo Saharaui, gli algerini prigionieri di una grande lotta di liberazione diventata dittatura, gli egiziani avviluppati nel loro gigantismo contraddittorio e plurireligioso.

Questa era l’immagine che ne avevamo, più o meno. Con il corollario di un’immigrazione non particolarmente amata e l’ombra del fondamentalismo islamico.

Quindi, chi ha anche solo annusato quel che stava per succedere nel Maghreb e in tutti i paesi arabi? Chi poteva immaginare rivoluzioni tanto efficaci quanto – salvo in Libia per necessità estrema – disarmate, popolari, plurali, sostanzialmente laiche, senza leader visibili né partiti, e così tenaci, come la Tunisia di questi giorni dimostra? Chi avrebbe anche solo sospettato che la più grande lezione di libertà, di capacità di abbattere i tiranni, il più emozionante «respiro del mondo», come ha scritto Rossana Rossanda, sarebbero venuti da lì?

Bene, ora l’Europa sta a guardare. Preoccupata per il petrolio e gli innumerevoli affari che rischiano di inciampare (il maggior partner economico di questi paesi è l’Italia, insieme alla Francia). Ansiosa di capire come andrà a finire e allo stesso tempo un po’ invidiosa – l’Europa migliore – del fatto che lì si è riusciti a sbloccare quel che in altri mondi appare immobile, inattaccabile da ogni tipo di scandali – corruzione, prostituzione, autoritarismo, compravendita di parlamentari, nel caso italiano e non solo – e sostanzialmente eterno. Il potere politico, intendo, quello che è così intrecciato al potere economico e al potere dei media (dello «spettacolo», come diceva Guy Debord), da essere diventato uno stile di vita, una ideologia, una cattiva abitudine e una malattia fastidiosa come l’alito pesante.

Invidiosi, sì, siamo invidiosi. Tanto da cercare di gettare il cuore – come si dice – oltre l’ostacolo. In effetti, non sappiamo quale miscela chimica, e quale incubazione, abbiano prodotto i fenomeni che vediamo nel Maghreb, che so, le carovane dalle campagne tunisine verso la capitale, il fiammeggiare di blog e social networks, gli studenti che offrono il petto alla fucilazione, le tende in piazza Tahrir al Cairo. Eccetera. Non abbiamo idea di quale sia, in ultimo, la molla che produce la rivoluzione più moderna, quella più adatta a questo secolo, ossia la mescolanza di ceti e linguaggi e religioni, e la pressione fisica costante, ossessiva, sul potere, la delegittimazione di fatto dei governi, molto ghandiana e molto pragmatica, e capace di comunicare al mondo e a se stessa.

Però: e se – si chiedono Alex Foti e Max Guareschi – vista l’impossibilità di abbattere Berlusconi per via giudiziaria (ostruita e parziale), o inducendolo a vergognarsi (impossibile), o denunciando la corruzione (mezzo di governo tra gli altri, ormai, come la mafia), o con le elezioni (l’opposizione non esiste o quasi, e comunque a vincere è quasi sempre il denaro, e se poi il governo spetta a te magari non andrai con le minorenni ma le società di «rating» sono sempre le stesse, nessuno le elegge), se si fosse prodotta anche qui da noi, quella miscela chimica, come forse segnalano i milioni di donne e studenti e altri in piazza, o, aggiungo io, le migliaia di movimenti cittadini che – comune per comune – difendono tutti i beni di tutti?

Andiamo in Piazza del Popolo – o in Piazza Duomo, o in Piazza Maggiore, o in Piazza della Signoria, ecc. – e ne facciamo altrettante Piazza Tahrir? Beh, vale la pena provarci, almeno, sarà sempre meglio che deprimersi davanti alla tv.

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