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Wall Street "occupata"
THIS IS WHAT DEMOCRACY LOOKS LIKE Tuta da lavoro e caffè nel bicchiere di carta d’ordinanza, su un marciapiedi della Broadway un paio di operai studia con aria sarcastica il flusso che sfila compatto da Bowling Green Park all’imbocco transennato di Wall Street, poche centinaia di metri più avanti “Lo sai, vero, che fra dieci anni questi figli di papà avranno il culo al caldo in qualche banca e noi invece saremo sempre qui?” commenta uno dei due quando gli chiedo il motivo del suo scetticismo. I figli di papà in questione sono un migliaio e aderiscono a un ventaglio piuttosto ampio di organizzazioni - prima fra tutte la canadese Adbusters, seguita da molte associazioni per la lotta alla povertà e all’emarginazione, a partiti di minoranza e agli hacker di Anonymous, che spiccano nella folla con le maschere rubate a V per Vendetta. Si muovono senza sosta, perché fermarsi significherebbe, per quanto buffo, trasformare la presenza in occupazione abusiva di suolo pubblico, passibile d’arresto - per bloccare, dal 17 settembre a Natale, il Financial District di New York. Wall Street. L’ombelico della crisi finanziaria mondiale. ONE DAY/ONE WEEK/OCCUPY/WALL STREET A manifestare sono studenti, disoccupati, veterani. Come sempre. “Non credi che stiano dimostrando anche per voi?” chiedo all’operaio. “Di noi non frega un cazzo a nessuno. Fidati, sorella. Questi stanno qui perché non lavorano - non devono, capisci? Gli unici a lavorare, oggi, sono quegli altri…” ride indicando la fila infinita di poliziotti che presidia il percorso. “…anche se non mi dispiace per niente.” Borghesi che giocano alla rivoluzione contro poliziotti proletari, insomma. Futuri assicurati da università di prestigio e condizioni di lavoro dure, precarie e mal pagate. Come sempre, appunto. I contestatori non contribuiscono a negare la contraddizione.“Stasera, lotta coi cuscini, #occupywallstreet”, recita nel pomeriggio lo stream ufficiale di Twitter. Oppure: “Al Bowling Green Park comincia il corso di yoga”. “Alle 6:00 pane e burro d’arachidi per tutti in Liberty Street”. “Questi contrasti forse valevano due o tre generazioni fa,” interviene Larry, sessantenne di colore, disoccupato, reduce della guerra del Vietnam. “Oggi la vastità della crisi mondiale li ha azzerati. Cattive notizie per tutti: università o no, possibilità o meno, il sistema ormai non ha più posto per nessuno. Sai che c’è? Il futuro non esiste.” Ho iniziato a sentirlo dire negli anni Ottanta, penso, anche se allora il motto era figlio di passioni punk, ansie da Guerra fredda e lettura compulsiva di Christiane F., non certo del realismo disincantato che sembra aleggiare qui, adesso. “Se è per questo lo dicevamo anche un decennio prima, quando abbiamo iniziato finalmente a opporci al Vietnam,” prosegue Larry. “Ma con una differenza cruciale: noi siamo stati lentissimi, in termini di movimentazione delle masse. La globalizzazione della crisi come della reazione e i sistemi di comunicazione che sono a disposizione oggi possono far esplodere la ribellione ovunque, con più tempestività ed efficacia. La primavera araba, i moti spagnoli, noi: non ci sono più confini.” Spirito ribelle corretto real time, insomma. Da padrone, in questo senso, ovviamente fa Twitter. Nei canonici 140 caratteri, hashtag compresi, una dimostrante scrive: wow, my grandmother said she is following the #occupywallstreet #takewallstreet twitter feed, she says it reminds her of the 60s. Completamente (e deliberatamente) ignorata dai media americani, l’occupazione si basa infatti sul passaparola in rete, sui social network e su una mappa partecipativa in cui via cellulare si aggiornano di minuto in minuto i blocchi di polizia, i percorsi liberi, gli hotspot wi-fi e i (vitali) posti di ricarica elettrica. Parole d’ordine e richieste sono stati decisi in crowdsourcing, e vengono ulteriormente discussi all’aperto, in “Assemblee Popolari” (nobile etichetta per confusissimi sit-in con megafono, un mare di teste chine su iPhone e Android e voci coperte dal caos fisiologico di Manhattan, sullo sfondo impressionante dei fantasmi del WTC, del cantiere della Liberty Tower e del 9/11 Memorial). Malgrado ciò, meno di un decimo delle persone attese si è presentato all’appello (vatti a fidare degli eventi creati su Facebook…). “La televisione, alla fine, ce l’ha ancora vinta,” commenta Mika, trentenne laureato e in cerca di lavoro in Michigan. “Ed è questo, in fondo, che vogliamo combattere: cerchiamo di fare informazione. Lo facciamo in un paese dove l’informazione non esiste più.” Più ottimista Sean, un illustratore del Connecticut: “Da stamattina abbiamo già ottenuto un grande risultato: abbiamo bloccato Wall Street. La strada è completamente transennata e presidiata dalla polizia, nessuno entra o esce. Primo obiettivo raggiunto, quindi, e non abbiamo dovuto far nulla. Le autorità non se ne accorgono, ma hanno chiuso Wall Street spontaneamente.” PROTECT US LIKE THE BULL Più singolare, fra volti coperti, simboli anarchici e stampa comunista (sempre una bestemmia, da queste parti), è la partecipazione dei Protest Chaplains: saio bianco, cori religiosi, opposizione al capitalismo come “forma d’amore per l’umanità”. Dave, il “leader” del gruppo (“Scusa, ma tu sei un prete?” gli fa un ragazzino. “No, no, solo un cappellano…” Umiltà e gerarchie ecclesiastiche in action.) spiega: “Noi siamo cristiani, ma la cosa non è importante, di per sé. Non parliamo in base alla fede, ma alla convinzione che bisogna vivere in pace con tutti. La scorsa settimana si è celebrato il triste anniversario dell’11 settembre. A migliaia, dieci anni fa, dopo la tragedia si sono riversati proprio qui, nella Lower Manhattan, con un solo scopo: aiutare. Ma dov’è quello spirito, al di là dell’emergenza? Si discute in continuazione su come tutelarci, come tagliare fuori qualcuno mai su come includerlo. Così, forse, si protegge il toro,” dice accennando al Charging Bull di bronzo che simboleggia la determinazione della borsa dopo la crisi del 1987. “Ma quando cominceremo a proteggere anche la gente?” Non che lo faccia la Chiesa, provoco (inutilmente, peraltro). “Non mi interessa cosa fanno i vertici: la Chiesa siamo tutti noi. Io voglio guardare il mio prossimo negli occhi e riuscire sempre a pensare: ecco il mio Dio.” Sulla tentazione di intonare il De André di Laudate hominem, mi allontano.
THAT IS WHAT HYPOCRISY LOOKS LIKE Nel 2008, Obama rappresentava la speranza. Oggi, nel corteo spiccano i cartelli in cui viene raffigurato con baffetti da Hitler, sopra la significativa citazione del 25esimo emendamento della Costituzione, che riguarda le procedure per la rimozione o la sostituzione del presidente. In piena Harlem, al posto dei soliti versetti della Bibbia, l’insegna luminosa di una chiesa riporta le parole “Obama is Evil”, Obama è il Male. Cos’è cambiato nel rapporto di fiducia in questi tre anni? Lo chiedo a Ryan, uno degli organizzatori (disclaimer: ne deduco il ruolo dal coordinamento rigido del corteo, che comprende la distribuzione della lista di ciò che non bisogna fare, come bere o fumare erba. Lui, però, nega che degli organizzatori esistano. “Lo siamo tutti,” insiste); mi aspetto, effettivamente, che la maggior parte, se non la totalità di chi è presente oggi, alle presidenziali abbia dato il suo voto proprio al candidato democratico. “È vero, e sono deluso, ma avevo solo 18 anni,” dice Ryan dall’alto degli attuali 21. “Ho creduto alle sue parole, ma la verità è che è uguale a Bush. Segue il vento dei partiti e dell’industria: in fondo sono loro a pagargli lo stipendio, no?” Alle prossime elezioni ha deciso di non votare. Al patetico tentativo (mio) di distinguere il sistema dalla persona, precisa: “Lo so, lo so, è l’apparato. Bisogna staccare l’impianto politico da quello finanziario. Tornare a una situazione di tutela dei diritti dei lavoratori, di controllo da parte dei sindacati. Come nel dopoguerra.” Senza J. Edgar Hoover, possibilmente.
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