da Affari & Finanza di Repubblica
Gli “indignados” americani di Occupy Wall Street Se c’è un posto da dove cominciare la prossima rivoluzione, è Wall Street. I potentati della finanza hanno cacciato l’America e il mondo intero nella più grave crisi dagli anni Venti. Poi le stesse lobby bancarie hanno tenacemente ostacolato i progetti di grandi riforme, con discreto successo. Non c’è da stupirsi se proprio Wall Street è l’epicentro del minimovimento degli "indignados" americani, che alla terza settimana di lotta ha cominciato a estendersi verso la West Coast (Los Angeles, San Francisco), il Midwest (Chicago), il Nord (Boston, Canada) e perfino l’America profonda del Kansas. È presto per parlare di un ritorno del conflitto sociale o della "lotta di classe" che la destra accusa Barack Obama di fomentare negli Stati Uniti, dove il vuoto di movimenti sociali dura da più di trent’anni. Le piazze si sono riempite talvolta anche negli anni recenti, è vero. Ma quando a mobilitarsi era la sinistra vedi le manifestazioni pacifiste contro la guerra in Iraq durante la presidenza Bush lo faceva su temi tipicamente "postindustriali", valoriali, tipici di una società che si autorappresenta senza classi. L’ultima grande manifestazione coi sindacati fu nel 1999 a Seattle, contro il Wto, e l’incrocio con la violenza dei noglobal ne segnò di fatto la sconfitta. Solo giovedì scorso i sindacati hanno deciso di unire nuovamente le proprie forze a quelle di una protesta spontanea e prevalentemente giovanile, unendosi a "Occupy Wall Street". Fino a quel momento era stata la destra a occupare le piazze, con il Tea Party, a dimostrazione che l’egemonia conservatrice su una robusta fetta dell’opinione pubblica americana resiste dai tempi di Ronald Reagan. Il movimento "Occupy Wall Street" ha ricevuto un’attenzione elevata dai media perché ha scelto di localizzarsi nell’epicentro del nuovo Impero del Male. Anche gli americani che votano a destra sono generalmente consapevoli che questa crisi è stata innescata dalle malefatte dei banchieri, con i mutui subprime e la finanza tossica. Quello che a destra non è affatto chiaro, invece, è che dopo il 2009 una malefica convergenza tra il populismo antiStato del Tea Party e le lobby di Wall Street ha impedito di mettere i banchieri in condizione di non nuocere. E’ fondamentale ricordare cos’è accaduto attorno alla legge Dodd-Frank, nota anche come Wall Street Reform and Consumer Protection Act. Quella legge, firmata da Barack Obama il 21 luglio 2010, porta il nome dei due principali firmatari, il senatore Chris Dodd e il deputato Barney Frank, ambedue democratici. Fu l’esito finale di una lunga battaglia legislativa, iniziata per impulso di Obama quando ancora i democratici avevano la maggioranza in ambedue i rami del Congresso, e quando ancora fra i loro ranghi era vivo l’impeto riformatore provocato dal disastro di Wall Street. Ma già nell’iter legislativo l’azione sistematica delle lobby aveva indebolito quella che doveva essere la grande riforma dei mercati. Due sono gli esempi più importanti. Primo: le agenzie di rating sono riuscite a tutelarsi da ogni tentativo di regolamentarle in maniera stringente; un risultato non da poco, alla luce dell’enorme conflitto d’interessi esploso in occasione della crisi dei mutui subprime (molti titoli strutturati avevano ricevuto rating "tripla A", naturalmente dietro pagamento di commissione da parte degli emittenti). Secondo esempio: è stata rintuzzata dalle lobby di Wall Street l’ipotesi di introdurre la Volcker Rule, dal nome di Paul Volcker. Questo ex governatore della Federal Reserve, che era stato uno dei consiglieri più ascoltati di Obama in campo economico (ma ahimé solo durante la campagna elettorale e poco dopo) aveva suggerito inizialmente non solo un divieto onnicomprensivo alle banche di speculare su mezzi propri, ma perfino un ritorno alla legge GlassSteagall del 1933 che aveva creato una robusta separazione di mestieri fra banche di deposito e banche d’investimento. La prima parte della Regola Volcker è entrata nella legge Dodd-Frank in misura annacquata; di reintrodurre la separazione stile GlassSteagall non si è più parlato. Ma l’indebolimento della Dodd-Frank rispetto all’ispirazione iniziale è ancora poca cosa, in confronto a quel che le lobby di Wall Street sono riuscite a fare in seguito. Una volta varata quella legge, le lobby si sono ingegnate per svuotarne l’applicazione. Qui la battaglia più importante è stata quella contro la nuova agenzia per la protezione del depositante e dei consumatori di servizi finanziari. Quell’agenzia doveva essere uno dei capisaldi della riforma. Prima le banche hanno ottenuto che non fosse un’authority indipendente bensì sotto la tutela della Federal Reserve (dove gli stessi banchieri sono ben rappresentati soprattutto a livello locale). Poi è partita la formidabile guerra di Wall Street contro Elizabeth Warren, la coraggiosa docente di Harvard che era stata la vera e propria "madrina" dell’agenzia e che Obama voleva nominare alla sua testa. L’hanno spuntata le lobby, la Warren non è riuscita ad ottenere il via libera al Senato. Decisiva, in tutti questi casi, è stata la convergenza fra Wall Street e la destra repubblicana. Nel frattempo il capitalismo americano non ha fatto nulla per emendarsi dei propri eccessi. Lo scandalo più eclatante rimane quello della superpaghe ai top manager. L’ultimo caso è quello di Léo Apotheker, il disastroso chief executive di HewlettPackard defenestrato dal consiglio d’amministrazione il mese scorso. Tutti sembravano d’accordo: il top manager aveva condotto il colosso informatico della Silicon Valley sull’orlo del baratro, andava cacciato al più presto. Risultato: il board della società lo ha "ringraziato" con un "premio di licenziamento" di 13 milioni di dollari. Se si aggiungono a quello che lui aveva guadagnato di stipendio"normale" (10 milioni), Apotheker ha stabilito un nuovo record. Perché il suo periodo alla guida di Hp è durato appena 11 mesi. In questi tempi di crisi economica acuta, con 25 milioni di disoccupati, c’è un’America dove qualcuno viene licenziato per scarso rendimento e si ritrova con 23 milioni di dollari in tasca. Lo scandalo dei superstipendi per i top manager ormai ha prodotto quasi una sorta di assuefazione: una vicenda come quella di Apotheker vale un titolo in evidenza sui giornali per un paio di giorni al massimo. Poi si passa al successore, anzi la successora: Meg Whitman, ex chief executive di EBay, che è stata chiamata a sostituire Apotheker al vertice di Hp. Naturalmente con un contratto di assunzione blindatissimo, che anche a lei garantisce somme favolose a prescindere dal rendimento. Hp non è un’eccezione, è la regola. Sapevamo di Wall Street, dove i banchieri colpevoli del tracollo sistemico del 2008 sono ancora ai loro posti oppure si godono una pensione dorata con dei bonus stratosferici. Ma anche la Silicon Valley, tanto decantata per la sua cultura dell’innovazione e del rischio imprenditoriale, in realtà rischia poco quando si tratta dei chief executive. Quello di Amgen (biotecnologie) se n’è andato con 21 milioni di stipendio annuo dopo che il valore dell’azienda in Borsa era caduto del 7% e lui aveva licenziato 2.700 dipendenti. E nessuno che tenti di stracciare i contratti blindati dei capi. Nell’America dove gli operai di Gm e Chrysler si son visti dimezzare lo stipendio e decurtare le pensioni, l’unica categoria che ha dei "diritti acquisiti" rigidissimi è l’oligarchia manageriale. Com’è possibile? Finalmente uno studio rivela il perché. Anzi, tre studi, perché del tema scottante si sono occupate tre équipe di ricercatori universitari, guidate rispettivamente da Michael Faulkender (University of Maryland), Jun Yang (Indiana University) e John Bizjak (Texas Christian University). Usando la documentazione raccolta dalla Sec gli studiosi hanno raggiunto la stessa conclusione. Dietro l’aberrazione delle supergratifiche c’è il fenomeno del "peer benchmarking". Per "benchmarking" si intende un metodo che fissa degli obiettivi standard che un’azienda deve raggiungere o superare (è molto usato nel marketing). "Peer" sta per "pari grado". Dunque, i ricercatori hanno scoperto che il 90% dei consigli d’amministrazione delle grandi aziende Usa al momento di assumere un amministratore delegato fissano la sua paga guardando alle paghe dei suoi simili. E con una regola precisa: invocando il pretesto che bisogna "attirare i migliori", le paghe dei neoassunti devono essere "superiori al compenso mediano" (la mediana, in statistica, è il valore più frequente in un gruppo). Quindi la spirale perversa che spinge sempre più su le paghe dei top manager ha una causa semplice: il tuo chief executive va pagato più di quello della porta accanto. E’ così che dagli anni Settanta i compensi dei top manager sono più che quadruplicati (in potere d’acquisto reale) mentre nello stesso periodo lo stipendio medio dei dipendenti è arretrato del 10% in termini reali. L’hanno battezzata anche la "sindrome del Lago Wobegon", nome del luogo immaginario inventato dall’animatore radiofonico Garrison Keillor, "dove tutti i bambini sono superiori alla media". Peccato che non possa dirsi altrettanto per la maggioranza degli americani.
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