http://www.repubblica.it La primavera dei popoli
Due cambiamenti, sufficienti per segnare la svolta di un'epoca, sono già intervenuti mentre le rivolte nel mondo arabo sono ancora in corso. E la repressione è sempre più sanguinosa in Libia. Il nuovo capitolo di storia non riguarda soltanto i paesi che ne sono il teatro. La zona sensibile, dall'Algeria all'Iran, rappresenta il 36 per cento della produzione mondiale di petrolio. Questo è quel che ci riguarda sul piano concreto, insieme ai rischi di guerre non soltanto civili, in una zona ricca di conflitti latenti, alle porte dell'Occidente europeo. Sul piano politico, ideologico, morale, quel che sta accadendo è inoltre destinato a sconvolgere, a rovesciare il pregiudizio occidentale sul mondo arabo musulmano. Il famoso conflitto di civiltà. Il primo cambiamento già avvenuto è che uomini e donne rivendicano i diritti dei cittadini di uno Stato democratico, e quindi rifiutano il modello del rais, onnipotente e insostituibile, dominante dall'Atlantico all'Oceano indiano per decenni. Dopo il tunisino Ben Ali e l'egiziano Mubarak, adesso traballa anche Gheddafi, caricatura dell'autocrate arabo miliardario in petrodollari, in esercizio da più di quarant'anni. Altri birilli cadranno. Cercando di svelare i misteri che inevitabilmente annebbiano i fenomeni rivoluzionari appena esplosi, gli storici più audaci azzardano un paragone: evocano la "primavera dei popoli" del 1848, che in qualche mese sconvolse in Europa il sistema politico creato dal Congresso di Vienna. Dopo grandi sacrifici, generose esaltazioni ed enormi speranze, le rivoluzioni d'allora, verificatesi a catena, dalla Sicilia dei Borboni alla Parigi di Luigi Filippo, fallirono una dopo l'altra. Stiamo quindi assistendo a insurrezioni popolari, al di là del Mediterraneo, destinate a fallire? Come nell'Europa dell'800 ritornarono le monarchie autoritarie o si formarono nuovi imperi, cosi potrebbero ritornare i rais di cui gli arabi si sono appena liberati o si stanno liberandoo vorrebbero liberarsi? Gli interrogativi restano. Ma forse gli storici sanno soprattutto predire il passato. I nostri sono tempi veloci. I popoli insorti hanno sotto gli occhi i modelli democratici. Le immagini, le informazioni, scavalcano le frontiere e le censure. Il secondo cambiamento, sottolineato da Henry Laurens, storico del mondo arabo, riguarda l'immagine che gli arabi hanno di se stessi e che da noi era tanto diffusa, al punto da essere un'ossessione. Il manifestante di piazza Tahrir al Cairo o di avenue Burghiba a Tunisi, e l'oppositore al regime di Gheddafi che sacrifica la vita a Benghasi, hanno sostituito l'immagine del terrorista barbuto e fanatico. I popoli, le cui civiltà erano state umiliate dal colonialismo, decisi a ritornare sulla scena internazionale, si riunirono a Bandung (1955), per celebrare la sovranità dei loro Stati, l'indipendenza nazionale appena conquistata, ed anche per affermare, in certi casi, le loro fedi religiose. Lo ricorda Jean Daniel, ed io ricordo le corrispondenze di un vecchio reporter, Cesco Tomaselli, mandato nella città indonesiana dove si svolgeva la conferenza, in cui i partecipanti (tra i quali Chou En-lai, Nasser, Tito, Nkrumah, Nehru) venivano descritti, o meglio derisi, come espressioni di civiltà inferiori, scimmiottanti i veri grandi della Terra. Poco più di mezzo secolo dopo non è più questione di nazione indipendente e di affermazione dell'identità religiosa. Il vecchio cronista, allora convinto rappresentante di una civiltà superiore, scoprirebbe adesso che i giovani tunisini, egiziani, yemeniti, marocchini e anche libici, dei quali non avevamo l'impressione di conoscere i volti, perché il loro paese sembrava incarnato soltanto da Gheddafi, e dalle sue grottesche stravaganze, rivendicano diritti individuali e libertà. Senza esprimere esigenze religiose. Senza limitarsi a richiami nazionalisti. Esattamente come gli europei del 1848, ma anche come quelli degli Anni Quaranta, della lotta antifascista, e del 1989, dopo la caduta del Muro. La storia si è ricongiunta. Il computer e i suoi derivati hanno aperto uno spazio incontrollabile per gli sgherri del raìs e offrono strumenti comuni a civiltà sempre meno divise. Le idee corrono più facilmente. Conquistano anche i soldati, i coscritti, che dovrebbero reprimere ma che sono spesso sensibili agli slogan dei coetanei pronti a sfidare la polizia di Mubarak e di Ben Ali e gli aerei di Gheddafi. Gli sconfitti non sono soltanto i rais, a lungo prediletti dalle potenze occidentali, in quanto guardiani dei loro popoli, pronti a combattere, a reprimere le tentazioni integraliste appena affioravano nella società. Anche le correnti estremiste dell'Islam hanno subito una disfatta, perché la sognata rivolta popolare non è stata guidata da loro. Li ha colti di sorpresa. Anzi ha investito lo stesso Iran, dove gli oppositori del governo teocratico hanno rivendicato le stesse libertà chieste a Tunisi, al Cairo, a Tripoli. Questo ha contato nell'atteggiamento americano. Gli Stati Uniti di Barak Obama sono stati determinanti in Egitto. Questa volta la forza si è messa al servizio della giustizia. Senza l'insistente intervento di Washington i generali del Cairo non si sarebbero risolti tanto presto a sbarazzarsi del presidente, che era anche il loro comandante supremo. Obama ha mantenuto la promessa fatta due anni fa con il discorso del Cairo, rivolto al mondo musulmano. Ha appoggiato i movimenti democratici, pur compiendo qualche contorsione diplomatica. Per non compromettere troppo la stabilità di vecchi alleati dell'America tutt'altro che democratici. Ad esempio l'Arabia Saudita, insidiata dalla rivolta sciita di Bahrein. Anche l'Europa è stata fedele ai suoi principi condannando la repressione e pronunciandosi in favore degli oppositori in rivolta. Soltanto l'Italia di Berlusconi ha mancato all'appuntamento d'onore per un paese democratico. Se l'insurrezione libica affogherà nel sangue, il governo italiano avrà la sua parte di vergogna.
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