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7 giu 2011

Così è nata la primavera araba
di Lorenzo Trombetta, da “Europa”

«O noi o il caos», continuano a ripetere incessantemente i sempre più contestati leader arabi. Secondo i loro calcoli soltanto la minaccia del “caos” è sufficiente ad atterrire e paralizzare i sudditi, da decenni assueffati e abituati a preferire «la tirannia all’anarchia », come recita una reinterpretazione molto libera di un precetto di Ibn Taymiyya (XIII-XIV sec.), uno dei massimi giuristi e teologi musulmani. Il termine arabo “caos” (fawda) raramente è però pronunciato dalla retorica delle repubbliche arabe ereditarie scosse dalle loro fondamenta come Tunisia, Egitto, Yemen, Libia e Siria (in questa lista è presente anche il Bahrain, che si differenzia solo nella forma essendo una monarchia e non una repubblica).
Al posto del termine “caos”, i raìs di queste jumlukiat (crasi tra jumhuriyat, repubblica, e mamlaka, regno) urlano dai loro pulpiti (Ali Saleh in Yemen, Muammar Gheddafi in Libia) o sospirano dai loro scranni (Hosni Mubarak in Egitto, Bashar al-Assad in Siria, Hamad Khalifa del Bahrain) termini assai più evocativi in patria e all’estero: “al-Qaida!”, “Salafiti!”, “Terroristi!”, “Complottisti!”, “Sionisti!”, “Americani!”, “Iraniani!”.
A ciascuna comunità confessionale o etnica il suo “uomo nero”. A ciascun attore internazionale il suo spauracchio.
L’importante è prender tempo e mantenersi saldi al potere. Anche a costo di passare dalle parole ai fatti: di mascherare da barbuti terroristi gli agenti dei propri servizi di sicurezza e ordinare ai reparti speciali, immancabilmente comandati dai fratelli o dai cugini dei rispettivi raìs, di intervenire «per riportare la calma e assicurare la protezione dei cittadini».
The game però is over, tanto che questo “caos” artefatto, mediatico e retorico non spaventa più i sudditi. Che dal lampo di una torcia umana sembrano essersi accorti che dietro la tirannia non c’è deterministicamente solo la guerra civile e le gole tagliate. Soprattutto perché un altro “caos”, assai più reale, in apparenza silenzioso e senza dubbio più costruttivo, si è fatto strada negli anni nelle diverse società arabe. Per rendersene conto bisognava grattare sotto la superficie del malessere e dello squallore che domina quasi tutte le capitali mediorentali.
Sotto la polvere si nascondeva una vitalità e un dinamismo popolare, diffuso per lo più tra i giovani. Dietro quei volti rassegnati o distratti dalle vanità si poteva distinguere, pur se a fatica, l’inizio della fine delle jumlukiat.
Riccardo Cristiano, curatore di Caos arabo – Inchieste e dissenso in Medio Oriente (Mesogea, 208 pp., 19 euro) ha il merito di esser andato a grattare dietro la superficie. E di aver bussato alla porta di alcuni tra i più acuti intellettuali per tentare di decifrare il cambiamento in atto, solo pochi attimi prima che questo si palesasse. Mentre Cristiano si aggirava per le vie di Beirut quasi nessuno avrebbe potuto immaginare quanto il suo libro, una volta pubblicato, potesse diventare così attuale. Forse non lo immaginava nemmeno lui stesso, che nel volume ha raccolto le traduzioni di oltre venti inchieste di giornalisti arabi riguardanti i più scottanti temi sociali e politici: dalla corruzione nei partiti al potere alle complicità tra autorità e sfruttatori di prostitute, dalla questione femminile declinata nei suoi diversi aspetti alla tragedia dei figli degli attentatori suicidi, dal neo schiavismo alla lotta per la cittadinanza che è ancora un miraggio.
Il libro è stato concepito e costruito a Beirut. La città in cui sei anni fa veniva ucciso da un’autobomba Samir Kassir, storico e giornalista, tra i più lucidi intellettuali arabi del suo tempo. Cristiano aveva conosciuto Kassir e con lui aveva conversato l’ultima volta in un caffè popolare di Beirut, ormai anch’esso parte della memoria. Forte di quell’incontro, l’autore di Caos arabo ha avuto l’intuizione e la pazienza di andare a cercare «le radici invisibili della rivolta araba», scartabellando tra gli articoli vincitori e quelli finalisti delle varie edizioni del premio giornalistico per la libertà di stampa dedicato proprio alla memoria di Samir Kassir. E che nei giorni scorsi, sempre a Beirut, è stato consegnato per l’edizione 2011 all’egiziana Ethar Kataney e al libanese Habib Battah.
Sono due giovani giornalisti. Giovani come quelli che hanno occupato piazza Tahrir al Cairo o che stanno offrendo i loro petti nudi al piombo della repressione di Damasco. Giovani come quelli di cui parla Ahmad Beydoun, professore e sociologo di fama internazionale, con cui Cristiano ha conversato durante la preparazione del libro e la cui preziosa testimonianza è raccolta, assieme a quelle di altri quattro intellettuali libanesi, nella terza ed ultima parte del volume.
«Mi sembra che i giovani, dei quali si parla troppo poco, siano stanchi di questa vita», affermava Beydoun poco prima dello scoppio delle rivolte arabe.
Se l’allarme lanciato quel giorno da Beydoun in un caffè di Hamra a Beirut poteva erroneamente sembrare parte di un’analisi sociologica per comprendere mutamenti di un futuro lontano, davvero pochi coraggiosi visionari avrebbero scommesso sull’attualità della “profezia” di Samir Frangie, «vero intellettuale arabo e mediterraneo», un altro dei Virgili a cui Cristiano si è affidato nella discesa nel caos arabo: «L’Egitto torna a essere un modello, e presto il vento egiziano soffierà anche in Siria. È impossibile pensare che non accada», aveva assicurato Frangie all’inizio di febbraio scorso, subito dopo la caduta di Mubarak e ben un mese prima l’inizio delle proteste a Damasco. «In Medio Oriente – parola di Frangie – finalmente si sfarinano i paradigmi politici degli ultimi cinquant’anni».

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