Questo articolo è uscito sul New Yorker con il titolo The light
Internazionale, numero 921,
28 ottobre 2011

La luce
di Hisham Matar
scrittore libico
Traduzione di Francesca Spinelli.

Nel Mediterraneo arabo, c’è un’ora in cui il sole rimane sospeso a un palmo dall’orizzonte, come indeciso. Quella che fino a poche ore prima era una stella accecante si affievolisce al punto di poter essere fissata. La sua luce obliqua avvolge tutto in un tenue bagliore arancione: il colore della reticenza e del dubbio, il colore della mia generazione e del momento storico che noi libici stiamo vivendo.

Ma è anche il colore della speranza, della possibilità di un futuro diverso, in cui potremo vivere liberi dal giogo totalitario, dall’invadente presenza delle potenze estere colluse con i nostri dittatori. Per una vita siamo rimasti intrappolati tra queste forze e questa luce di fine giornata, unica al mondo, evocava al tempo stesso la nostra prigionia e le nostre aspirazioni.

Abbiamo vissuto in un teatro del macabro e dell’assurdo. Ascoltavamo discorsi senza fine, e applaudivamo. Sopportavamo i rapimenti, gli omicidi, e non siamo mai riusciti a ignorare del tutto le facce sorridenti dei nostri leader sui manifesti colorati.

Le potenze straniere che ammiravamo, gli Stati Uniti e l’Unione europea, ci hanno offesi intrecciando rapporti con i nostri dittatori e chiudendo gli occhi davanti alle nostre sofferenze. Ci siamo accorti che queste potenze esercitavano un nuovo tipo di controllo politico sui nostri paesi. Lo chiamavamo “colonialismo a distanza”. Ricordo ancora un discorso dell’allora presidente egiziano Anwar al Sadat. Ero bambino e stavamo al mare. Qualcuno grigliava del pesce, mi ricordo l’odore del pesce. Del discorso non mi è rimasta che una frase, pronunciata da Sadat con il tono di un adulto irritato: “L’America ha in mano il 99,9 per cento delle carte”. Ricordo il silenzio calato tra le persone intorno a me, e il senso di quella frase: la consapevolezza che, per ogni scambio con il mondo esterno, l’Egitto doveva avere il beneplacito degli Stati Uniti. Perfino io avevo capito la metafora: le “carte” non erano solo il nostro presente, ma anche il nostro futuro. In poche parole: il nostro destino.

Tranne che in alcuni casi straordinari (come la Palestina), i ragazzi della mia generazione sono nati molto tempo dopo la fine dell’occupazione straniera. Ma l’indipendenza che abbiamo ereditato era indefinita, come l’ora del nostro tardo pomeriggio. Più i nostri dittatori diventavano vecchi e sanguinari, più il loro linguaggio si faceva pomposo. Per mantenere la loro legittimità rievocavano i tempi bui in cui “lo stivale degli europei calpestava il nostro collo”. Eravamo soffocati dalle loro parole, dalle loro pose. I nostri leader non erano solo violenti: corrompevano la nostra immaginazione. Come osserva Ryszard Kapuściński, la dittatura è il trionfo del kitsch, e la mia generazione è stata profondamente e aggressivamente esposta all’influenza ingannatrice di questo kitsch dalle mani insanguinate. Abbiamo vissuto secondo questa logica. Ci dettava cosa dovevamo leggere, guardare e ascoltare. Influenzava perfino le parole che sceglievamo per esprimere l’amore, o le nostre impressioni sulla luna e il tramonto. Interveniva appena osavamo deviare. Il suo tono era monocorde e intollerante. Quando esitavamo, non spiegava. Si limitava a ripetere gli ordini, più brutalmente. E la cosa peggiore è che abbiamo lentamente imparato a obbedire.

Già da bambino, quando giocavo nel giardino della nostra casa di Tripoli mentre il resto della famiglia e – almeno così sembrava – il mondo intero riposavano, la luce del tardo pomeriggio mi affascinava e allo stesso tempo mi turbava. Era l’unico momento in cui il linguaggio politico dei nostri leader, così cinico e sfrontato, taceva. Era il momento migliore per contemplare l’enigma in cui ci trovavamo; per renderci conto che il dittatore aveva perfezionato la sua arte e che paradossalmente, ora che eravamo “indipendenti”, l’ingerenza straniera nella nostra politica e nella nostra economia era ancora più sinistra, perché apparentemente inevitabile. Tutto questo ci spingeva a disprezzarci, ispirandoci una sorta di pessimismo beckettiano: non pos­siamo essere strumenti, siamo strumenti, saremo strumenti.

Uno dei più perversi sintomi di questa disperazione era l’estremismo: inarticolato, devastante e violento. Nel modo più grottesco possibile, esprimeva tanto il nostro sgomento quanto la desolazione del nostro immaginario politico. Ci disturbava e c’imbavagliava, isolandoci ancora di più dal mondo moderno. Con il senno di poi, la vergogna era una reazione appropriata.

Come picador alle prese con un toro ferito, abbiamo visto aumentare la stupidità occidentale, alla quale eravamo già abituati. Abbiamo visto commentatori occidentali diventare isterici appena si citava l’islam. Interpreti riduttivi della società e della storia arabe, come Bernard Lewis, sono improvvisamente tornati alla ribalta. Poi, finalmente, quando il nostro isolamento e il nostro sconforto hanno raggiunto il culmine, ci siamo ribellati.

La primavera araba è una reazione, potente ed esemplare, non solo all’epoca dei tiranni ma anche a quel che rimane dell’influenza imperiale. L’esito finale delle nostre rivoluzioni – ammesso che la storia conosca esiti finali – è ancora incerto. Potremmo non riuscire a costruire un futuro migliore. Ma nessuno può mettere in dubbio l’autenticità del nostro desiderio, o quanto siamo disposti a sacrificare pur di conquistare l’autodeterminazione, la dignità e la giustizia. La luce rimane, ma non è più malinconica. D’un tratto sembra nostra alleata, e il suo tepore sulla pelle ci rassicura. Ora, quando il sole tramonta, le nostre notti sono serene. E preghiamo, dando l’ultimo addio all’abisso.

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