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10 apr 2011

Todd Gitlin, le rivolte e internet
di Marisa Palumbo

Todd Gitlin, professore di sociologia e giornalismo alla Columbia university di New York e storico leader del movimento contro la guerra in Vietnam, è in sabbatico. Dopo un paio di mesi nel sud-est asiatico è a Berlino, e lì si fermerà per qualche settimana. Ma prima di arrivare nella capitale tedesca ha fatto tappa per una decina di giorni al Cairo, dove ha tenuto tre lezioni all’American University su media, rivoluzione e democrazia. L’abbiamo raggiunto al telefono per farci raccontare com’è andata, e come gli è sembrato il nuovo Egitto senza Mubarak.
Professor Gitlin, tre conferenze sul tema del momento.

Be’, sì. Ma il complicato e importantissimo rapporto tra media e rivoluzione – che è stato poi il tema della mia prima lecture – non è nuovo. Quando si guarda alla rivoluzione americana, a quella francese, a quella russa e, in modo molto diverso, a quella iraniana del 1979, viene fuori che i media hanno sempre giocato un ruolo importante. Ma la natura dei media è cambiata, e al posto degli strumenti di gossip e delle newsletter informali presenti in Francia nel 1789 e dintorni, oggi ci sono Facebook, Twitter e YouTube. In virtù di queste trasformazioni, la velocità con cui si sviluppano le rivoluzioni è aumentata ed è aumentata anche la portata delle loro ripercussioni, ma i fondamentali sono parte della storia costante delle rivoluzioni.

Sta dicendo che il ruolo dei social media non è stato fondamentale o rivoluzionario in sé, come si racconta?

Direi che alcune interpretazioni sul ruolo dei new media siano state un po’ esagerate. Faccio un esempio: Wikileaks ha diffuso tempo fa dei documenti sulla corruzione della famiglia Ben Ali. Bene, ho parlato con alcune persone in Tunisia le quali mi hanno assicurato che questa storia era di dominio pubblico, e il fatto che le informazioni siano circolate online non sembra aver giocato un ruolo centrale nella rivolta. Mentre è stata importantissima la diffusione di immagini brutali, come quella del giovane che si è immolato in Tunisia o quella della faccia orribilmente pestata di Khaled Said ad Alessandria. In quel caso il gruppo creato su Facebook “Siamo tutti Khaled Said” è stato uno strumento molto efficace per convocare gente in piazza Tahrir il 25 gennaio. E il ruolo dei blogger – molti dei quali curano i loro siti da anni – è stato molto importante dal punto di vista tattico e strategico e nell’organizzare una rivoluzione non violenta. Però, ecco, parlare di Facebook revolution mi pare riduttivo. Per esempio nella narrazione occidentale si è sottovalutato il ruolo giocato dai sindacati, sia in Egitto sia in Tunisia, entrambi paesi con una lunga storia di attività e resistenza sindacale. Tuttora la sorte della rivoluzione è nelle mani loro e dei giovani e se andranno avanti uniti è una delle domande cui ancora non è possibile dare risposta.

I new media e i social media hanno però certamente cambiato il modo di raccontarle, le rivoluzioni. O no?

Indubbiamente. Tutti i principali network hanno imparato a usare immagini e notizie trovate sui social network. Spero solo che abbiano trovato o stiano trovando il modo per valutare e distinguere il vero dal falso e dalla propaganda. Mi ricordo che nel 2009 la gente che cercava informazioni sulle manifestazioni dell’Onda verde in Iran su Twitter doveva fare i conti con un regime impegnato a fare propaganda e diffondere storie false anche sui social network. Gli old media hanno bisogno dei new media, ma hanno anche urgenza di trovare dei filtri.
La primavera araba è stata anche la primavera di al Jazeera, e forse per la prima volta abbiamo avuto una prospettiva non occidentale su un grande evento internazionale.
Al Jazeera è stata la grande vincitrice di questi mesi. Posso testimoniare di come nel giro di poco tempo la sua reputazione in America sia cambiata, e adesso tutti la prendono sul serio. È diventata così importante che ora sono meglio posizionati per ottenere una copertura totale via cavo negli Stati Uniti, dove oggi si può vedere solo in alcune zone o online. Ma se è vero che al Jazeera ha cambiato il modo di raccontare è vero che alcuni pregiudizi rimangono.

Per esempio?

Nella seconda lezione al Cairo ho parlato di come spesso dall’estero le persone abbiano male interpretato o non compreso le rivoluzioni, a volte nella speranza o illusione che le cose andassero nella direzione a loro più conveniente, altre per eccesso di paura del contrario. Oggi la grande paura riguarda la Fratellanza musulmana e la possibilità che si appropri dell’esito della rivoluzione. Ecco, di tutte le persone con cui ho parlato nessuna auspica un’ascesa al potere della Fratellanza, ma contemporaneamente nessuno pensa che possa accadere.

Che impressione ha avuto dell’Egitto?

Nei miei giorni al Cairo ho cercato di sentire più persone possibile: giornalisti, blogger, gente coinvolta nelle proteste, persone comuni. Non posso dire di essere un esperto, ma ho ricavato alcune impressioni precise, anche se la situazione è ancora molto fluida. Primo, l’esercito è l’unica istituzione forte rimasta. Secondo, un gran numero di persone, credo la maggioranza, pur avendo sostenuto la rivoluzione è molto preoccupata e vorrebbe tornare alla normalità. Una normalità ancora lontana: l’economia è traballante, i turisti non arrivano. Terzo, il sistema politico è embrionale. Capita di leggere sui giornali che è nato un nuovo partito, ma non sono partiti funzionanti, con un loro apparato e una leadership radicata; tendono invece a essere organizzati in modo carismatico. La grande eccezione sono i resti del vecchio partito di governo, il New Democratic Party, e i gruppi dentro e vicini all’esercito. La Fratellanza musulmana è certamente una forza, ma è percorsa da una frattura in parte generazionale. Il gruppo della leadership, che è stato lento ad abbracciare la rivolta, adesso vuole fondare un nuovo partito chiamato Libertà e giustizia, il cui nome è modellato sul partito al potere in Turchia.

Ma alcuni dei giovani nella Fratellanza stanno pensando di fondarne un altro.
Regge l’alleanza di comodo tra giovani e esercito?

Sì e no. Tra le persone in piazza Tahrir ieri (oggi per chi legge) c’è chi ha manifestato contro l’esercito perché si faccia da parte. Giorni fa c’è stata una manifestazione studentesca all’università del Cairo che chiedeva il licenziamento di un gruppo di funzionari universitari parte dell’apparato di Mubarak e l’esercito è intervenuto per disperderla…Insomma, le tensioni ci sono, ma pochi credono al pericolo di una dittatura militare. L’esercito, come in Cina, è un’enorme potenza economica, possiede molte industrie. Secondo i giornalisti con cui ho parlato questo aspetto del loro potere non è negoziabile. Se all’esercito viene assicurato che manterrà i suoi privilegi economici non ostacolerà il passaggio dei poteri a un governo civile.

Che idea hanno i giovani rivoluzionari degli Stati Uniti?

Alcune persone hanno criticato Obama e Hillary Clinton per la lentezza con cui hanno preso le distanze da Mubarak, ma molti altri ritengono che gli Stati Uniti abbiano fatto la scelta giusta, perché se avessero esplicitamente abbracciato la rivolta sin dall’inizio l’avrebbero danneggiata, avrebbero permesso al regime di dipingere la rivoluzione come il prodotto di una cospirazione straniera.

Un’ultima cosa, ancora sull’informazione: non è incredibile come nessuno, né sui media né nell’intelligence, avesse previsto quello che stava per accadere?

Io credo che quello che sta accadendo nel mondo arabo sia uno di quei momenti di grande sconvolgimento e frattura molto difficili da prevedere. La gente scesa in piazza Tahrir il 25 gennaio è stata la prima a rimanere attonita. Ho parlato con uno dei principali blogger egiziani il quale, avendo partecipato ad altre manifestazioni di scarso successo negli ultimi anni, mi ha detto che non riusciva a credere ai suoi occhi quando ha visto quanta gente si era presentata. Insomma, ci prenderemmo in giro se dicessimo che possiamo sempre prevedere cosa c’è dietro l’angolo.

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