Internazionale
22 aprile 2011
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26 aprile 2011 12.04

Intrigo mediorientale      
di Robert Fisk
Traduzione di Stefano Valenti.

Cosa c’è di meglio di una nuova guerra contro Israele per distogliere l’attenzione degli arabi dalla rivoluzione?

Prima di tutto un’occhiata alle cronache del 14 aprile dal fronte rivoluzionario siriano. “Ieri mattina sono andato in piazza a manifestare, mi sono messo d’accordo con gli amici di Facebook, non li conosco, ma abbiamo la stessa voglia di libertà. Il giorno prima ero rimasto sveglio fino alle sei del mattino a guardare le notizie, è orribile quello che succede in Siria: le forze di sicurezza uccidono le persone come animali. Mi sono vestito e sono sceso in strada, dove circa 150 agenti dei servizi di sicurezza in borghese manifestavano a sostegno di Assad. Era pazzesco, l’idea che manifestassero a favore del dittatore mi mandava su tutte le furie. Gli agenti tenevano d’occhio le persone e chi non inneggiava al presidente veniva picchiato e arrestato. Naturalmente io non cantavo e ho cominciato a fare riprese con il telefonino. Improvvisamente quaranta uomini delle forze di sicurezza mi hanno circondato e si sono messi a urlare: ‘Sta facendo un video!’. Poi mi hanno colpito… Mi hanno sequestrato telefono, documenti e soldi, dicendomi ‘Perché stai facendo un video, bastardo?’. Ho risposto: ‘Sto dalla vostra parte e con il presidente Assad!’. Mi hanno chiesto di nuovo: ‘Perché stai facendo un video?’. ‘Perché sono contento di vedere manifestazioni a favore del grande leader Assad’, ho risposto. Un uomo, il più entusiasta di tutti (sembrava un ufficiale), mi ha preso a schiaffi”.

Seconda cronaca: “Posso assicurarvi che Assad mente: sono almeno seimila i prigionieri politici in Siria. Quindi che senso ha liberarne solo 260? Hanno detto che aboliranno la legge di emergenza ma poi ne faranno una nuova contro il terrorismo che, ne siamo certi, sarà peggio della legge di emergenza. Hanno detto che combatteranno la corruzione, ma credete forse che Assad farà arrestare suo cugino Rami Makh­louf, suo fratello Maher Assad, suo zio Dhu Himma Shaleesh e tutta la sua famiglia? Che ci restituirà i soldi che hanno rubato? Non chiediamo cibo o aumenti salariali, vogliamo cambiare l’intero sistema e impiccare tutta la famiglia Assad…”.

Scappare
Questo è materiale grezzo, la voce del popolo e dei giovani, che non sarà messa a tacere con le torture e i manganelli. Gli autori di queste testimonianze sono riusciti a non farsi arrestare, anche se uno ha dovuto scappare dal pae-se. Il loro racconto è quello di un’oppressione comune a paesi come la Tunisia, l’Egitto, lo Yemen e la Libia. In comune c’è la consapevolezza della corruzione dilagante, le false manifestazioni a sostegno del governo, la violenza della polizia segreta, la presenza degli sgherri del regime in abiti civili – quelli che al Cairo venivano chiamati baltagi, teppisti − e il carattere settario della repressione (gli uomini che hanno attaccato i manifestanti nella città siriana di Lattakia appartengono alla setta alawita, come la famiglia Assad).

Il regime di Damasco sostiene che le rivolte scoppiate nel paese sono fomentate da forze esterne venute a seminare zizzania. Tra queste ci sarebbe il Libano e, in particolare, la coalizione 14 marzo, guidata dall’ex premier sunnita Saad Hariri, il principale avversario di Hezbollah. Vedete com’è facile creare una guerra settaria in Siria e poi infettare con lo stesso virus i pae­si vicini? Assad non ha lanciato quest’accusa a caso. Le rivoluzioni non nascono da singoli episodi (il tentativo di suicidio di un disoccupato tunisino, la distruzione di una chiesa copta), per quanto drammatici possano essere. E il risveglio arabo non è cominciato a gennaio in Tunisia ma in Libano nel 2005, quando l’uccisione del primo ministro Rafiq Hariri (padre di Saad) ha spinto centinaia di migliaia di libanesi di tutte le fedi a scendere in piazza per chiedere il ritiro dei ventimila soldati siriani di stanza nel loro paese.

In quell’occasione Assad fece un discorso a Damasco in cui insultava i manifestanti e insinuava che le riprese televisive erano state fatte in modo da far sembrare più numerosi i partecipanti. In ogni caso le Nazioni Unite approvarono una risoluzione che costrinse le truppe siriane ad abbandonare il Libano.

Fu la prima volta che le masse arabe in rivolta riuscirono a liberarsi di un dittatore, anche se era di un altro paese. Ma nessuno di noi − neanche io, nonostante vivessi in Libano da decenni – si era reso conto di quanto profondamente, nel corso di ventinove anni, gli artigli siriani erano affondati nella terra rossa del Libano. Damasco è riu­scita a mantenere i suoi tirapiedi a Beirut e i suoi servizi di sicurezza sono riemersi sotto un’altra forma. Quando sono scoppiate le manifestazioni in Iran contro i brogli alle presidenziali del 2009, molti oppositori mi hanno chiesto notizie della rivoluzione libanese del 2005 contro la Siria. Le due rivolte non avevano legami politici diretti ma c’era senza dubbio una connessione ispiratrice.

Nel Medio Oriente musulmano molti manifestanti hanno sperato che le forze di sicurezza sostenessero la loro causa. Al Cairo alcuni soldati si sono uniti alla rivoluzione – ancora più numerosi sono stati in Yemen – ma è inutile sperare che i lupi si trasformino in agnelli. I capi della polizia, perfino quelli più religiosi, sono tenuti a obbedire agli ordini, anche quando comportano omicidi di massa.

Senza pietà
Prendiamo per esempio l’Arabia Saudita. Secondo un documento che l’Independent è riuscito a ottenere, l’11 marzo, in vista di una grande manifestazione organizzata da intellettuali sciiti e sunniti, e denominata “rivoluzione di Hunayn”, il principe Nayef bin Abdel Aziz al Saud, ministro dell’interno saudita, ha dato questo ordine: “Agli onorevoli capi di polizia delle aree di Riyadh, Mecca e Medina, Al Bahr, Qassim, della frontiera settentrionale, di Tabouq, Sharqiya, Qaseer, Najwan, Jezaan e al capo delle forze speciali di pronto intervento, a proposito della cosiddetta ‘rivoluzione di Hunayn’ – nel caso in cui esista davvero – che ha l’obiettivo di minacciare la sicurezza nazionale: questi individui diffondono il male in tutto il paese. Non abbiate pietà nei loro confronti. Colpiteli con il pugno d’acciaio. È consentito l’uso di proiettili veri. Questa è la vostra terra e questa è la vostra religione. È necessario rispondere a chi vuole modificarla o sostituirla”.

L’ordine era noto agli Stati Uniti, che oggi condannano la brutalità del regime siriano, ma in quel caso non hanno aperto bocca. Le istruzioni di Nayef meriterebbero un’indagine della Corte penale internazionale – in sostanza ha ordinato ai capi della polizia di sparare sui manifestanti inermi − ma anche se gli uomini del principe avessero eseguito l’ordine (come è successo in passato), lui sarebbe al sicuro. L’Arabia Saudita è il regno in cui i governi occidentali, come i leader locali, non tollereranno nessun risveglio arabo. Non c’è da stupirsi se le carte d’identità saudite non definiscono il legittimo possessore “cittadino” ma al tabieya (servo).

La cosa strana di tutte queste rivoluzioni è il fatto che i dittatori – non importa se si chiamano Ben Ali, Mubarak, Saleh, Assad, o Al Saud − passano più tempo a spiare gli stranieri e ad accumulare prove sulle trasgressioni compiute dai cittadini che a chiedersi cosa vuole veramente il popolo. Éric Rouleau, ex corrispondente di Le Monde in Iran, diventato in seguito ambasciatore francese in Tunisia, ha rivelato che nel 1985 Ben Ali, quand’era ministro dell’interno, voleva comprare le più moderne attrezzature di comunicazione francesi. Lo “spietato superpoliziotto”, come lo definiva Rouleau, aveva informazioni su tutti.

In un incontro con Rouleau, Ben Ali descrisse i principali pericoli per il regime tunisino: la conflittualità sociale, le tensioni con Muammar Gheddafi e − cosa più grave di tutte – la minaccia islamista. Poi Ben Ali premette un pulsante e una voce cominciò immediatamente a elencare i nomi delle persone tenute sotto costante sorveglianza. Rouleau, che mandava a Parigi resoconti poco lusinghieri sul regime e sul ministro dell’interno, era sorpreso del lento declino dei suoi rapporti con Ben Ali.

“Il giorno della mia partenza dalla Tunisia andai a salutarlo”, ricorda Rouleau. “In quell’occasione, in uno stato d’ira, Ben Ali mi chiese perché lo considerassi alla stregua di un agente della Cia e un uomo ambizioso. Cominciò a citare dai suoi file, parola per parola, i miei messaggi riservati al Quai d’Orsay”. L’ambasciata francese non aveva segreti per Ben Ali, ma il presidente tunisino non conosceva il suo popolo. C’è una foto in cui Ben Ali fa visita in ospedale a Mohamed Bouazizi, il giovane che ha dato il via alla rivolta. Mentre cerca di mostrarsi partecipe, i dottori e gli infermieri guardano il presidente con rabbia e impazienza, un’impazienza che lui, naturalmente, non comprende. Ma è dalle piccole scintille che possono nascere grandi incendi.

Il regime di Assad, per esempio, avrebbe dovuto capire quello che stava per succedere a Daraa. In quella città con un passato di rivolte, alcuni giovani avevano disegnato dei graffiti contro il presidente. La polizia aveva fermato i responsabili, li aveva picchiati e torturati. Le loro madri erano andate a chiedere la liberazione dei figli ed erano state insultate dalla polizia. Poi alcuni anziani sono andati dal governatore di Daraa per chiedere spiegazioni sul comportamento della polizia. Lì, hanno appoggiato i loro turbanti sulla scrivania del governatore, un gesto che indica la volontà di trattare. Avrebbero indossato di nuovo il turbante solo quando la questione fosse stata risolta. Ma il governatore, un vecchio baathista lea­lista, ha preso il turbante del più anziano e lo ha lanciato sul pavimento calpestandolo. Quando la gente di Daraa ha invaso le strade in segno di protesta e sono partiti i primi colpi, Assad ha frettolosamente licenziato il governatore. Ma era troppo tardi: l’incendio era divampato. In Tunisia, un giovane disoccupato si era dato fuoco. In Siria, era stato calpestato un turbante.

Ma questi episodi hanno anche radici storiche. Così come il distretto di Hauran, in cui si trova Daraa, è da sempre focolaio di ribellioni, l’Egitto è la terra di Gamal Abdul Nasser, il cui nome veniva invocato con rispetto dai manifestanti di piazza Tahrir. E non perché avessero dimenticato il regime militare che aveva lasciato in eredità, ma perché pensavano che Nasser fosse stato il primo leader ad aver restituito all’Egitto il rispetto di sé. La figlia di Nasser, Hoda, ha dichiarato: “Mio padre sarebbe orgoglioso dei manifestanti, i cui slogan sollecitano una radicale riforma politica e il cambiamento sociale. Nasser rimane al centro della mitologia rivoluzionaria in Egitto e nel mondo arabo in generale”.

Al confronto, la rivoluzione libica comincia a sembrare stantia. Il suo sangue si è coagulato insieme alle parole usate per descriverla. Le tribù che un tempo riconoscevamo come oppositori democratici ora sono chiamate “ribelli” sui giornali e alla tv, mentre la rivolta è una “guerra civile”. Molti paesi arabi sarebbero felici di assistere al crollo di Gheddafi ma lui al momento siede ancora nel pantheon della sua personale “rivoluzione”.

Il polmone di Teheran
A questo proposito, tra Libia e Siria si può tracciare un parallelo. Come Gheddafi, anche Assad rifiuta di piegarsi al “processo di pace” voluto da Washington. Continuando a sostenere Hezbollah in Libano, Assad può dire che la propria indipendenza e il rifiuto di piegarsi alle richieste di Stati Uniti e Israele costituiscono una rivoluzione a lungo termine molto più importante di quella inscenata dagli oppositori di Daraa, Lattakia, Banias e Damasco. Hamas continua ad avere il suo ufficio politico a Damasco. La Siria continua a essere il polmone attraverso cui l’Iran respira in Medio Oriente e attraverso cui il presidente Mahmoud Ahmadinejad può annunciare che il sud del Libano è diventato la prima linea nella guerra dell’Iran contro Israele.

E ora andiamo un po’ oltre. Il 31 marzo in Israele è stata pubblicata una serie di foto del sud del Libano scattate da aerei militari di ricognizione, su cui erano segnate le posizioni di 550 bunker di Hezbollah, di trecento “siti di monitoraggio” e di cento depositi di armi gestiti dalle milizie sciite libanesi alleate della Siria. Erano stati costruiti, sostenevano gli israeliani, vicino a scuole e ospedali. Quelle immagini erano false. Visitando i luoghi indicati non si trovava nessun bunker. I veri rifugi di Hezbollah, noti ai libanesi, non sono segnati su quelle mappe. Ma Hezbollah ha capito il significato di quest’operazione. “Vogliono incastrarci in vista della prossima guerra”, mi ha detto un suo leader. “Se Israele avesse davvero scoperto le nostre postazioni, l’ultima cosa che avrebbe fatto è informarci”.

Alcuni giorni fa l’aviazione turca ha costretto all’atterraggio un aereo iraniano in volo sopra Diyarbakir e presumibilmente diretto ad Aleppo, nel nord della Siria. Ufficialmente trasportava “pezzi di ricambio per auto”, ma a bordo dell’Ilyushin il-76 i turchi hanno trovato sessanta kalashnikov, quattordici mitragliatrici Bkc, ottomila munizioni, 560 granate di mortaio da 60 millimetri e 1.288 da 120 millimetri.

Dimenticate le rivoluzioni organizzate su Facebook. Quelle armi non avevano niente a che fare con il risveglio arabo, ma erano forniture dirette a Hezbollah da usare nel prossimo conflitto con Israele. Tutto questo fa sorgere una domanda: per distogliere l’attenzione del popolo dalla rivoluzione cosa c’è di meglio di una nuova guerra contro un nemico che ha sempre ostacolato la democrazia nel mondo arabo?

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