Arshin Adib-Moghaddam è nato da una famiglia iraniana e cresciuto in Germania. Insegna alla School of Oriental and African Studies della London University. È autore di diversi saggi, l'ultimo dei quali, A Metahistory of the Clash of Civilizations ("Una metastoria dello scontro di civiltà"), esamina i conflitti culturali nella storia europea dai tempi delle guerre greco-persiane, passando per le Crociate fino ad arrivare all'odierna lotta al terrorismo.

MLADÁ FRONTA DNES PRAGA
30 maggio 2011

Noi e le rivoluzioni
di Jan Fingerland
traduzione di Anna Bissanti

Che lezioni deve trarre l'Europa dai recenti avvenimenti sulla sponda meridionale del Mediterraneo? Da una parte che la sua influenza nella regione è destinata a diminuire, dall'altra che questa è una condizione necessaria per un rapporto più equilibrato.

Immagini che io sia un marziano appena arrivato sulla Terra, all’oscuro di ciò che accade in Medio Oriente. Come mi spiegherebbe cosa sta succedendo nel mondo arabo?

"È in corso un grande sollevamento popolare per la democrazia e la libertà, l’indipendenza e il rispetto dei diritti umani, ed è la prima volta dalla caduta dell’impero ottomano. Tutti i paesi arabi sono nati dalla disintegrazione di quell’impero. Alcuni hanno alle spalle una storia nazionale, per esempio Iran, Turchia e per alcuni aspetti l’Arabia Saudita, ma l’epoca coloniale ha avuto un impatto enorme sulla politica interna di ognuno di essi. Di conseguenza si sono sviluppati stati dittatoriali, in quanto i nuovi stati hanno tentato di creare un'identità siriana, irachena, giordana e così via.

Le sollevazioni popolari odierne prendono vita dalle società stesse e ambiscono a una nuova arte di governo. Nuove emittenti televisive trasmettono immagini e informazioni in modo indipendente, e anche questo è un fattore del tutto nuovo nella regione. Grazie a esse potranno prendere piede una nuova consapevolezza e una nuova coscienza politica, una nuova comprensione delle dinamiche politiche e nuove esigenze. In particolare, tra queste ultime c’è il fatto che chi è al potere deve rispondere del proprio operato. E naturalmente che vi sia giustizia sociale".

Questo significa che le società arabe stanno superando il loro passato dispotico? Cosa è accaduto realmente?

"Per comprendere il fenomeno delle dittature in questa regione, dobbiamo renderci conto che questi paesi hanno vissuto un violento periodo di colonialismo e resistenza postcoloniale. In alcuni casi si sono installati al potere esponenti dei vertici militari, e non strutture statali organicamente sviluppate. In Europa le strutture di questo tipo si sono evolute nel corso di secoli. Ci sono state  la Rivoluzione francese, due guerre mondiali, le guerre di Hitler, Mussolini e Franco. La società civile in Europa è progredita gradualmente, molto lentamente, e da tutto ciò è nata una forma di democrazia collaudata e vivibile. Il mondo arabo, invece, non ha mai avuto il lusso di  'propria storia'. Adesso le strutture nate dal basso si sono ribellate all’autorità e alla sovranità dello stato. Indietro non si torna".  

Che significano per l’Europa le rivoluzioni arabe?

"Le rivoluzioni pongono molte sfide in termini di strategia e sicurezza, in quanto il panorama politico è in evoluzione. Emergono governi che daranno maggiore ascolto alle loro società, e si affermano società che reclameranno una politica estera indipendente dall’occidente. Non è una coincidenza il fatto che Egitto e Tunisia non abbiano appoggiato l’intervento in Libia. L’Egitto si prepara a rinnovare le relazioni con l’Iran, che fino a tempi recenti erano tabù. Ue e Usa dovranno prepararsi ad affrontare le situazioni che dovessero eventualmente presentarsi nella regione, in quanto saranno molto meno in grado di controllarle anche soltanto rispetto all’anno scorso. In questo caso vediamo alcune somiglianze con l’America Latina, i cui regimi in passato erano molto più docili nei confronti dell’occidente. Proprio come gli interventi imperialisti nei loro affari interni oggi non sono più possibili, così non lo saranno neppure in Asia occidentale".

La definirebbe una sorta di seconda ondata di decolonizzazione? Di una minore influenza politica dell’occidente, e malgrado ciò di un maggior peso delle idee occidentali?

"Assolutamente. Dopo tutto, nelle rivoluzioni arabe non abbiamo assistito ad alcuna manifestazione esplicita di antiamericanismo. La Turchia collabora anche con l’Europa, ma persegue i propri obiettivi. Da un punto di vista strettamente personale, penso che si tratti di una cosa positiva, che serve la causa della pace in tutta la regione. In Medio Oriente abbiamo bisogno di una strategia per la sicurezza che non sia asservita agli interessi di attori esterni".  

Come giudica le politiche dell’occidente nei confronti delle rivoluzioni arabe?

"L’Unione europea dovrebbe avere una politica più indipendente dagli Usa di quanto non sia adesso. Lo si è visto in molte situazioni, per esempio in Iraq, nel conflitto israelo-palestinese, e ancor più di recente in Iran. L’Europa dovrebbe perseguire i propri interessi. L’Iran dovrà essere attirato al tavolo dei negoziati, perché la politica dell’isolamento e delle sanzioni si è rivelata fallimentare. Il programma nucleare di Teheran non può essere fermato e non esiste una soluzione militare, lo sanno tutti. E l’Unione europea è un partner migliore rispetto agli Usa in questo dibattito, in quanto non è oppressa da alcun fardello storico. Contano molto anche le considerazioni di ordine strategico. Per esempio, in futuro come trasporteremo il petrolio e il gas dall’Afghanistan? Non sarebbe meglio far passare un oleodotto dall’India, dal Pakistan e dall’Iran che attraverso la Russia? Analogamente, anche l’operazione in Libia è stata un errore. L’Europa ha stretti rapporti con il mondo arabo e islamico e deve prenderne atto".  

Perché l’operazione in Libia è stata un errore? Avrebbe preferito che l’Europa non fosse intervenuta, anche se questo avrebbe potuto significare restare a guardare Gheddafi che massacrava l’opposizione?

"Il modo giusto di procedere sarebbe stato, per quanto possibile, organizzare prima dell'intervento una conferenza alla quale far intervenire le parti in causa. Se ci fosse stata un’iniziativa diplomatica di questo genere sin dall’inizio, credo che Gheddafi non avrebbe reagito come poi ha fatto. Quando si intravede una soluzione alternativa, ci si pensa su due volte prima di massacrare il proprio popolo. L’intervento militare, al contrario, ha inasprito le violenze in Libia. Non si può dominare un popolo bombardandolo, né creare qualcosa di nuovo a partire da un’azione militare. Secondo lei, chi sta difendendo il regime di Gheddafi? Egli gode ancora di supporto, non si deve abbassare ad assoldare mercenari. Che cosa accadrà con ciò che resta del regime? Una diplomazia strategica potrebbe sbloccare questo stallo".  

Secondo lei la Libia si sta trasformando in un altro Iraq per l’occidente, ancora più vicino alle frontiere europee?

"Nessuno sa esattamente chi ci sia dietro il movimento in Libia orientale: di sicuro non è formato soltanto da liberali e democratici. Ci sono molte forze tribali diverse all’opera, ciascuna delle quali con una sua agenda. E tra loro vi sono anche dei jihadisti. Al Qaeda si sta rallegrando della situazione, perché questi eventi possono essere inseriti nella sua concezione di conflitto tra Islam e occidente. E una soluzione militare non sarebbe un esito felice".

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