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http://www.asianews.it La scommessa di Erdogan nel puzzle mediorientale Istanbul (AsiaNews) Il viaggio di Recep Tayyip Erdogan nei Paesi del Medio oriente è stato accolto da discorsi trionfalistici nella stampa turca. La figura del premier esce senz’altro rafforzata in un momento in cui egli sta per affrontare una tanto attesa riforma costituzionale. Ma il mondo diplomatico esprime alcune preoccupazioni, per le tensioni che tali mosse stanno suscitando nella regione. Dopo avere sistemato in Turchia alcuni conti con il vecchio establishment, il primo ministro Erdogan ha voluto dare il suo stigma anche alla politica estera turca in Medio oriente, ridefinendo il ruolo della Turchia in quello scacchiere geopolitico sconvolto di recente dagli ultimi sviluppi. Vale la pena sottolineare che la Turchia è Paese di religione sunnita, come la maggior parte dei Paesi arabi. Il viaggio di Erdogan e i litigi con Israele significano la rinuncia alla politica estera kemalista, caratterizzata da una dimensione unilaterale, basata sull’asse privilegiato dei rapporti con Israele e sul principio che la Turchia è il baluardo dell’occidente verso l’oriente, un modello da imitare per i Paesi non cristiani, sempre legato agli interessi euroatlantici . Il nuovo dogma è quello “neo-ottomano”, incentrato sulle comuni radici ed origini della coesistenza culturale, non politica, dei vari popoli durante il dominio ottomano. In più vi sono degli spunti neogollisti che vedono la Turchia come una potenza regionale emergente, che tratta i grandi alla pari e non sotto le loro dipendenze. Il modello politico su cui si basa, detto islam light , si incentra sullo sposalizio fra il modello della democrazia parlamentare (Stato laico), e il rispetto della libertà religiosa, insieme a un’economia basata sulla nuova piccola e media borghesia produttiva, di estrazione islamica. Tale politica sogna insomma di costruire un sistema regionale di rapporti al cui centro si trova la Turchia, legata ai Paesi che vanno dalla Bosnia nei Balcani, fino allo Yemen e all’Africa, uniti da un comune denominatore che è la cultura musulmana; promuovendo pure la coesistenza dell’islam con l’occidente, e non l’occidentalizzazione dell’islam, come faceva il modello kemalista. Il padre putativo di questa politica, il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu, ha detto testualmente:”Benché abbiamo ritenuto l’ingresso della Turchia [in Europa] una meta strategica, mai abbiamo abbandonato i nostri profondi legami con i Paesi mediorientali caucasici ed africani, motivo per cui occorre sempre sapere rappresentarli e sostenerli, se vogliamo aver un peso specifico nell’ ordine mondiale”. Come si sa, il grande sostenitore di questa politica di Erdogan e del suo partito Akp, è stato il presidente Usa Barack Obama, che ha rotto con la politica del suo predecessore, che demonizzava l’islam. Ma occorreva rompere la diffidenza dei Paesi arabi, dovuta al dominio ottomano e ai legami di Ankara con Israele: Ankara è stata il primo Paese musulmano ad allacciare rapporti diplomatici con Tel Aviv, fino ad un’alleanza militare con essa negli anni ’90. A questo scopo, Erdogan ha iniziato ad usare un linguaggio severo nei confronti di Israele, per la sua politica aggressiva sulla striscia di Gaza e in genere contro i palestinesi; allo stesso tempo ha aperto contatti con Hamas ed Hezbollah in Libano, toccando l’apice nello scontro verbale con Shimon Perez nella primavera del 2009, a cui è seguita lo scontro per la nave Mavi Marmara, fino ai giorni nostri, in cui egli ha cacciato l’ambasciatore israeliano da Ankara e bloccato ogni collaborazione militare con Israele. In questo modo egli ha guadagnato l’ammirazione del mondo musulmano, mettendo in crisi la credibilità dei governanti di stampo conservatore e reazionario del mondo arabo, di estrazione religiosa sunnita, che cominciano a guardarlo con un certo sospetto. Alcuni ambienti diplomatici ritengono che all’inizio, Erdogan non voleva la rottura con Israele, ma voleva reimpostare i rapporti tra due Paesi su un nuova lettura della situazione: Israele ha bisogno della Turchia e non la Turchia di Israele. Ma dopo il fiasco dell’Iraq, che benché liberato da Saddam Hussein, ora è controllato dai sciiti legati agli invisi iraniani, Israele ha investito sul Kurdistan iracheno, che costituisce la base delle escursioni del Partito rivoluzionario kurdo nel territorio turco. E la questione kurda è un vero cancro per la Turchia. Nelle scorse settimane Erdogan ha pure rimbrottato i metodi violenti di Bashar el Assad verso la primavera araba. Ma dal punto di vista storico, con la Siria i rapporti non sono mai stati teneri. Anzi, in momenti di crisi la Turchia ha voluto dire sempre la sua, come nel 1939 quando Ankara ha deciso di annettersi l’antica Alessandretta, un’annessione sempre contestata dalla Siria. Tutte queste iniziative di Erdogan trovano il plauso dei turchi. Un sondaggio del Marshall Fund, un istituto con sede in Germania, mostra che il 43% della popolazione turca ritiene più importanti i rapporti politici ed economici con i popoli arabi che quelli con europei ed americani. A questi ultimi va il 33% dei favori. Solo il 48% dei turchi è favorevole al loro ingresso nella Ue: benché in aumento del 10% rispetto ai dati dell’anno scorso, esso rimane lontano dal 74% del 2004. In questa imperiale cavalcata di Erdogan nel mondo mediorientale, non bisogna trascurare il fattore Iran. In apparenza sembrano esistere convergenze tra i due Paesi, soprattutto per la questione kurda, in quanto comune nemico. Ma dal punto di vista storico e culturale essi hanno sempre avuto divergenze . L’Iran sciita ha sempre nutrito riserve sulla Turchia sunnita e non permetterà mai la sua presenza egemone in quella zona. Nei primi anni ’80, un attento analista del passato, Gabriele Arnellos, anticipava una previsione: in quest’area si va verso uno scontro che vedrà coinvolti Turchia Israele, Libano, Siria ed Iran, che definirà nuovi equilibri internazionali. L’aria che tira sembra oggi dargli ragione.
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