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http://www.unita.it Perché il discorso di Erdogan segna la leadership in Medioriente Per la Turchia e il mondo arabo è arrivato il momento di ricordarsi dell'amicizia che li lega da secoli e di accettare una sfida storica, ossia il nuovo corso politico dopo la Primavera Araba. Israele invece deve rendersi conto che gli equilibri sono cambiati e che riconoscere lo Stato palestinese «è un obbligo». Sono questi i tempi principali del discorso che il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha tenuto oggi davanti ai ministri degli Esteri della Lega Araba al Cairo. Il primo ministro ha avviato un importante tour in Egitto, Tunisia e Libia, i tre Paesi protagonisti della 'Primavera Arabà. In Egitto è stato accolto da una folla in delirio, che ha aspettato diverse ore davanti all'aeroporto pur di poterlo accogliere. E al Cairo ha portato la speranza di un Paese democratico, laico ma musulmano, con indici di crescita invidiati in Occidente (Pil in frenata eppure a +8,8% nel secondo trimestre, secondi solo a quello della Cina. Un mix politico ed economico che fanno da base al varo della nuova leadership mediorientale del premier turco. Erdogan ha parlato delle opportunità offerte dalla Primavera Araba. «Abbiamo davanti un percorso difficile - ha detto - ma bisogna venire incontro alle legittime aspettative della gente, promuovendo riforme politiche, economiche e sociali». In questo processo la Turchia si erge a «sorella dei popoli Arabi» in una famiglia che è «numerosa e consolidata e che guarda con fiducia e speranza al futuro». Il premier turco offre al mondo arabo l'occasione di mettersi sotto la guida della Turchia non solo per quanto riguarda il cammino di riforme in cui Ankara può dettare la strada, ma anche per la questione che sta più a cuore in Medio Oriente: la fine dell'embargo a Gaza e il riconoscimento dello Stato palestinese. A questo argomento e ai rapporti con Israele è stata dedicata tutta la seconda parte del suo discorso. In buona dose Erdogan ha ripetuto cose già note. Per la Turchia il rapporto Onu sull'attacco della marina israeliana alla Mavi Marmara, costato la vita a nove civili, è nullo e Israele ha violato le leggi internazionali. Senza scuse ufficiali, senza la fine del blocco a Gaza e la compensazione alle famiglie delle vittime, un riavvicinamento dalla Turchia allo Stato ebraico è impensabile. Il premier ha terminato il suo discorso con la sfida sul riconoscimento dello Stato palestinese. «Lo stato palestinese - ha detto Erdogan - deve essere riconosciuto. Non ci sono altre scelte, è un dovere». E poi, in relazione all'Assemblea Onu di fine settembre, che dovrebbe dibattere proprio su questo tema ha aggiunto «a Dio piacendo a fine mese la Palestina alle Nazioni Unite troverà uno status diverso». Un premier che seduce ma non sorprende, almeno non per Mehmet Barlas, editorialista del quotidiano Sabah, filogovernativo, che parla di «un discorso forte, che rispetta pienamente le aspettative della vigilia» e di «occasione imperdibile per la Turchia. Ma non tutti concordano. Ad esempio Mehmet Ali Birand, liberale di opposizione, che con un editoriale sul quotidiano Milliyet intitolato »litigare con Israele non è una buona idea« si chiede quale sia la strategia del premier e fino a che punto potrà arrivare la frattura con lo Staot ebraico, lasciando intendere che Ankara potrebbe essere costretta a fare passi indietro. Intanto Erdogan va avanti. Sullo sfondo del tour da leader regionale si stagliano concreti interessi economici. La Turchia era uno dei Paesi più presenti in Egitto e Libia prima della Primavera Araba e Erdogan ieri sera non a caso è sbarcato accompagnato da una folta delegazione di uomini d'affari. L'interscambio con Il Cairo nel 2010 è stato di 3,1 miliardi di dollari, grazie anche alla zona di libero scambio inaugurata nel 2007 con uno dei 16 accordi per l'eliminazione di tariffe e quote stipulati con 16 Paesi, con lo sguardo volto in primis al Medio Oriente, al Nord Africa e l'area del Mar Nero. In Libia, poi, in particolare la Turchia deve difendere contratti per 15 miliardi di dollari, firmati ai tempi di Muammar Gheddafi.
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