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15/07/2011

Rivoluzioni, dove eravamo rimasti?
di Christian Elia

Otto mesi dopo i primi moti in Tunisia, dal Marocco al Golfo Persico la situazione resta fluida

Otto mesi che hanno cambiato tanto, ma non tutto. Molto, di sicuro, non sarà più come prima, ma tante cose che potevano accadere non si sono realizzate. Questo il bilancio, incompleto per forza, delle rivoluzioni che dal 15 dicembre, quando un venditore ambulante si è dato fuoco in Tunisia, sino a oggi hanno scosso come nulla prima il mondo arabo.

Che succede oggi? I fronti sono ancora tanti, anche se la stampa internazionale, come d'abitudine, macina con voracità situazioni e si fa presto a non far più notizia. Proviamo, dunque, a fare un punto della situazione.

Nord Africa. Di sicuro, con le rivolte in Egitto e Tunisia, è la zona che ha prodotto i cambiamenti più evidenti. Resta molto incerto, però, il processo di reale cambiamento. Al punto che alcuni osservatori internazionali - forse con un po' di fretta - si sono spinti a parlare di controrivoluzione. Le forze armate al potere in Egitto, scatenando la rabbia popolare, hanno rinviato le elezioni a dicembre. Piazza Tahrir è tornata a bollire, la reazione delle forze dell'ordine ha ricordato ad alcuni i momenti peggiori, ma poi sono stati finalmente arrestati oltre 700 poliziotti compromessi con il vecchio regime. Ecco che molto resta da fare, ma oggi al Cairo è difficile non tener conto del parere della piazza. Idem per la Tunisia dove, con fatica, il processo democratico avanza e si avvia alle urne, il 23 ottobre. Anche qui un rinvio, ma il governo si impegna anche a dare risposte spinose sui casi di desaparecidos tunisini, prima e dopo la rivolta. I moti non mancano, ma pare che il contesto sia cambiato.

Mentre in Algeria la protesta è rimasta costante, ma senza mai trascendere nei grandi numeri, in Marocco la riforma costituzionale - per ora - sembra aver appagato parte del blocco delle opposizioni. Il fronte più caldo della zona resta la Libia. Il mediatore russo Mickhail Magelov ha dichiarato che il colonnello Gheddafi non è affatto a corto di armi e può ancora - se lo volesse - radere al suolo Tripoli. I ribelli, intanto, avanzano a fatica, mentre arrivano per loro le prime accuse di violazioni dei diritti umani. A corto di armi e denaro, invece, è la Nato. L'operazione si trascina senza una strategia ben definita e i partner della coalizione sono sempre più in difficoltà, al punto che la Francia (dopo i grandi proclami di marzo) ha ammesso che è pronta a trattare con il regime. Gheddafi, alla fine, è riuscito a mettere in scacco Nato e ribelli, ottenendo quel conflitto di logoramento che lo porterà se non certo a salvare il suo potere, almeno a trattare una resa dignitosa e immune da processi internazionali.

Medio Oriente. L'altra sponda del Mediterraneo resta con il fiato sospeso, appesa al filo della crisi siriana. E' come se tutto il contesto regionale, dal Libano alla Palestina, stesse aspettando l'esito della crisi di Damasco per capire come e quanto cambieranno gli equilibri (instabili) della regione. Il Libano, in particolare. Una parte del potere di Hezbollah passa dal sostegno dell'Iran che si è sempre servito della Siria come cinghia di trasmissione di denaro e armi. La caduta di Assad, o un suo cambiamento di posizione nello scacchiere internazionale, magari mollando l'Iran in cambio di un appoggio occidentale al suo regime, cambierebbe degli equilibri. Se Hezbollah restasse sola, Israele potrebbe decidere - con l'opzione armata - di 'bonificare' a modo suo la frontiera nord. La Palestina, intanto, ha potuto salutare un riavvicinamento tra Hamas e Fatah proprio perché i primi sentono venir meno una retrovia sicura. Almeno fino a oggi. La Giordania è scossa da tensioni interne, ma non si ha la sensazione che la monarchia possa finire travolta dal malcontento, fino a quando non mutino gli equilibri regionali. La rivolta, intanto, arriva a Damasco e non accenna a fermarsi. In Iraq, invece, il movimento lo hanno soffocato nella culla.

Golfo Persico. Il vento del cambiamento sembra essere passato senza grandi sconvolgimenti. Il Paese più a rischio, il Bahrein, sembra aver ripreso il controllo della situazione dopo grandi movimenti di piazza. L'Arabia Saudita, che in Bahrein gioca la partita della supremazia regionale, appoggiando la monarchia sunnita contro la popolazione sciita vicina all'Iran, ha giocato un ruolo chiave. Riad è riuscita prima a 'silenziare' il dissenso interno, non solo degli sciiti sauditi, poi a sostenere militarmente l'emiro del Bahrein e a soffocare la rivolta. Manama ha concesso una commissione d'inchiesta per appurare la dinamica delle violenze di marzo e aprile, ha liberato alcuni detenuti politici, ma è lontana dal cambiare davvero qualcosa. Il Kuwait, che vive una situazione simile al Bahrein, tira il fiato dopo una stretta repressiva della minoranza sciita, e gli Emirati continuano a vivere la priorità del business, ma dopo aver accontentato Riad e aver girato le spalle all'Iran, al quale garantivano il traffico finanziario. La calma è tornata anche in Oman, dopo alcune concessioni del Sultano- Il Qatar è una storia a parte. Grazie ad al-Jazeera ha massimizzato il tornaconto politico delle rivolte, cambiando tono e smettendo il sostengo acritico alle rivolte dopo aver ottenuto una centralità internazionale impensabile per uno stato così piccolo.

In Yemen resta la situazione più fluida. Dopo l'attentato del quale è stato vittima, il presidente Abdullah Saleh ha annunciato il suo rientro in patria. Ha passato la convalescenza in Arabia Saudita, che ha continuato a garantire il suo sostengo al presidente, preoccupata com'è dell'emergere della rivolta sciita in Yemen. La ribellione, dopo il ferimento di Saleh, aveva vissuto una sorta di tregua. Che accadrà ora che Saleh torna a casa? E' una delle tante domande che scuotono il mondo arabo, mai come adesso al centro di un passaggio epocale, che rischia di non cambiare nulla.

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