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http://www.medarabnews.com
16/02/2011

La resurrezione del panarabismo
di Lamis Andoni

La rivoluzione egiziana, a sua volta influenzata dalla rivolta tunisina, ha resuscitato un nuovo significato di panarabismo basato sulla lotta per la giustizia sociale e la libertà. Il travolgente sostegno dato ai rivoluzionari egiziani in tutto il mondo arabo riflette un senso di unità nel rifiutare la corruzione tirannica, i leader autoritari, e il dominio di una piccola élite finanziaria e politica.

Le proteste arabe in segno di solidarietà con il popolo egiziano suggeriscono anche che vi è una forte nostalgia per un rilancio dell’Egitto inteso come leader unificatore del mondo arabo. Le fotografie di Gamal Abdel Nasser, l’ex presidente egiziano, sono state sollevate al Cairo e in tutte le capitali arabe da persone che non erano nemmeno nate quando Nasser morì nel 1970. Queste scene ricordano quelle che travolsero le piazze arabe negli anni ‘50 e ‘60.

Ma questa non è una replica esatta del nazionalismo panarabo di quei giorni. Allora, il panarabismo fu una diretta risposta alla dominazione occidentale ed alla costituzione dello Stato di Israele nel 1948. Oggi, è una reazione all’assenza di libertà democratiche e all’iniqua distribuzione della ricchezza in tutto il mondo arabo.

Oggi stiamo assistendo alla nascita di un movimento per la democrazia che trascende il nazionalismo ristretto o anche il nazionalismo panarabo, e che abbraccia i valori umani universali la cui eco risuona da nord a sud e da est a ovest.

Questo non vuol dire che non vi sia alcun elemento anti-imperialista all’interno del movimento attuale. Ma le proteste in Egitto e altrove promuovono una più profonda comprensione dell’emancipazione umana, che costituisce la base reale per liberarsi sia dalla repressione che dalla dominazione straniera.

A differenza del panarabismo del passato, il nuovo movimento rappresenta la convinzione intrinseca che siano la libertà dalla paura e la dignità umana a permettere alle persone di costruire una società migliore e di creare un futuro di speranza e di prosperità. Il vecchio “luogo comune” dei rivoluzionari del passato secondo cui la liberazione dalla dominazione straniera precede la lotta per la democrazia è crollato.

I rivoluzionari dell’Egitto, e prima ancora quelli della Tunisia, hanno denunciato con i fatti – non solo a parole – quei dirigenti che si comportano da tiranni nei confronti dei propri popoli mentre sono asserviti, in maniera umiliante, alle potenze straniere. Essi hanno dimostrato l’impotenza dei vuoti slogan che manipolano l’animosità nei confronti di Israele per giustificare una finta unità araba, che a sua volta serve solo a mascherare la continua oppressione e il tradimento delle società arabe e delle aspirazioni del popolo palestinese.

Il pretesto palestinese

L’era in cui si utilizzava la causa palestinese come pretesto per mantenere la legge marziale e mettere a tacere il dissenso è finita. I palestinesi sono stati traditi, non certo aiutati, da leader che praticano la repressione contro i loro stessi popoli. Non è più sufficiente per i regimi della Siria e dell’Iran rivendicare il sostegno alla resistenza palestinese al fine di soffocare la libertà di espressione e calpestare spudoratamente i diritti umani nei propri paesi.

Allo stesso modo, non è più accettabile per i movimenti palestinesi Fatah e Hamas ricordare la loro storia di opposizione ad Israele ed allo stesso tempo giustificare la loro reciproca soppressione e la loro oppressione del resto del popolo palestinese. Diversi giovani palestinesi stanno rispondendo al messaggio del movimento, e stanno abbracciando l’idea che combattere l’ingiustizia interna – sia quella praticata da Fatah che da Hamas – sia un prerequisito della lotta per porre fine all’occupazione israeliana, e che tale ingiustizia non sia qualcosa da sopportare per il bene di quella lotta.

Gli eventi in Egitto e Tunisia hanno rivelato che l’unità araba contro la repressione interna è più forte di quella contro la minaccia straniera – né l’occupazione americana in Iraq, né l’occupazione israeliana hanno galvanizzato il popolo arabo tanto quanto un singolo atto compiuto da un giovane tunisino che ha scelto di darsi fuoco piuttosto che vivere nell’umiliazione e nella povertà.

Questo non significa che gli arabi non si preoccupino dei popoli che vivono sotto occupazione in Iraq e in Palestina – decine, talvolta centinaia, di migliaia di persone sono scese in piazza in tutti i paesi arabi in diversi momenti per mostrare solidarietà nei confronti degli iracheni e dei palestinesi – ma riflette la presa di coscienza che l’assenza delle libertà democratiche ha contribuito alla perdurante occupazione di questi paesi.

L’incapacità araba di difendere l’Iraq o di liberare la Palestina è arrivata a simboleggiare un’impotenza araba che è stata perpetuata dallo stato di paura e di paralisi in cui hanno vissuto i comuni cittadini arabi, emarginati dall’ingiustizia sociale e schiacciati dall’oppressione degli apparati di sicurezza.

Quando è stato consentito loro di mobilitarsi a sostegno degli iracheni o dei palestinesi ciò è stato fatto soprattutto affinché la loro rabbia potesse essere allontanata dai loro governi e diretta verso una minaccia straniera. Per tanto tempo questi cittadini hanno messo da parte le loro rivendicazioni socio-economiche per dar voce al loro sostegno ai popoli arabi occupati, solo per risvegliarsi il giorno dopo prigionieri delle stesse catene di repressione.

Per tutto questo tempo, sia i governi filo-occidentali che quelli anti-occidentali hanno proseguito i loro affari come al solito – i primi contando sull’appoggio degli Stati Uniti per consolidare il proprio dominio autoritario, i secondi affidandosi agli slogan anti-israeliani per dare legittimità alla repressione dei loro popoli.

Ma ora i popoli in tutta la regione – non solo in Egitto e Tunisia – hanno perso fiducia nei loro governi. Poiché, non fraintendiamoci, quando i manifestanti si sono riuniti a Damasco o ad Amman per esprimere la loro solidarietà ai rivoluzionari egiziani di Piazza Tahrir, in realtà stavano esprimendo la loro opposizione ai propri governanti.

A Ramallah, i manifestanti hanno ripetuto uno slogan che chiedeva la fine delle divisioni inter-palestinesi, oltre che la fine dei negoziati con Israele – inviando così il chiaro messaggio che non ci sarà più spazio per l’Autorità Palestinese se continuerà ad affidarsi a tali negoziati.

Negli anni ‘50 e ‘60, milioni di arabi si riversarono nelle strade determinati a portare avanti la liberazione del mondo arabo dai resti della dominazione coloniale e dall’egemonia americana strisciante. Nel 2011, a milioni si sono riversati nelle strade determinati non solo ad assicurarsi la propria libertà, ma anche a garantire che gli errori delle precedenti generazioni non si ripetano. Gli slogan contro il nemico straniero – per quanto legittimi – suonano vuoti se la lotta per le libertà democratiche viene messa da parte.

I manifestanti del Cairo e di altre città arabe possono sollevare le fotografie di Gamal Abdel Nasser perché lo considerano un simbolo della dignità araba. Ma, a differenza di Nasser, i manifestanti di oggi stanno invocando un nazionalismo panarabo che comprenda che la liberazione nazionale non può andare di pari passo con la repressione del dissenso politico. Perché questa è una vera unità araba galvanizzata dal desiderio comune per le libertà democratiche.

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http://english.aljazeera.net
Last Modified: 11 Feb 2011 18:51 GMT

The resurrection of pan-Arabism
By Lamis Andoni

The Egyptian revolution, itself influenced by the Tunisian uprising, has resurrected a new sense of pan-Arabism based on the struggle for social justice and freedom. The overwhelming support for the Egyptian revolutionaries across the Arab world reflects a sense of unity in the rejection of tyrannical, or at least authoritarian, leaders, corruption and the rule of a small financial and political elite.

Arab protests in solidarity with the Egyptian people also suggest that there is a strong yearning for the revival of Egypt as a pan-Arab unifier and leader. Photographs of Gamal Abdel Nasser, the former Egyptian president, have been raised in Cairo and across Arab capitals by people who were not even alive when Nasser died in 1970. The scenes are reminiscent of those that swept Arab streets in the 1950s and 1960s.

But this is not an exact replica of the pan-Arab nationalism of those days. Then, pan-Arabism was a direct response to Western domination and the 1948 establishment of the state of Israel. Today, it is a reaction to the absence of democratic freedoms and the inequitable distribution of wealth across the Arab world.

We are now witnessing the emergence of a movement for democracy that transcends narrow nationalism or even pan-Arab nationalism and which embraces universal human values that echo from north to south and east to west.

This is not to say that there is no anti-imperialist element within the current movement. But the protests in Egypt and elsewhere promote a deeper understanding of human emancipation, which forms the real basis for freedom from both repression and foreign domination.

Unlike the pan-Arabism of the past, the new movement represents an intrinsic belief that it is freedom from fear and human dignity that enables people to build better societies and to create a future of hope and prosperity. The old "wisdom" of past revolutionaries that liberation from foreign domination precedes the struggle for democracy has fallen.

The revolutionaries of Egypt, and before them Tunisia, have exposed through deeds - not merely words - the leaders who are tyrants towards their own people, while humiliatingly subservient to foreign powers. They have shown the impotence of empty slogans that manipulate animosity towards Israel to justify a fake Arab unity, which in turn serves only to mask sustained oppression and the betrayal of Arab societies and the aspirations of the Palestinian people.

The Palestinian pretext

The era of using the Palestinian cause as a pretext for maintaining martial laws and silencing dissent is over. The Palestinians have been betrayed, not helped, by leaders who practice repression against their own people. It is no longer sufficient for regimes in Syria and Iran to claim support for Palestinian resistance in order to stifle freedom of expression and to shamelessly tread on human rights in their own countries. 

Equally, it is no longer acceptable for the Palestinian Fatah and Hamas to cite their record in resisting Israel when justifying their suppression of each other and the rest of the Palestinian people. Young Palestinians are responding to the message of the movement and embracing the idea that combatting internal injustice - whether practised by Fatah or Hamas - is a prerequisite for the struggle to end Israeli occupation and not something to be endured for the sake of that struggle.

Events in Egypt and Tunisia have revealed that Arab unity against internal repression is stronger than that against a foreign threat - neither the American occupation of Iraq nor the Israeli occupation galvanised the Arab people in the way that a single act by a young Tunisian who chose to set himself alight rather than live in humiliation and poverty has.

This does not mean that Arabs do not care about the occupied people of Iraq or Palestine - tens, sometimes hundreds, of thousands have taken to the streets across Arab countries at various times to show solidarity with Iraqis and Palestinians - but it does reflect the realisation that the absence of democratic freedoms has contributed to the continued occupation of those countries.

The Arab failure to defend Iraq or liberate Palestine has come to symbolise an Arab impotence that has been perpetuated by the state of fear and paralysis in which the ordinary Arab citizen, marginalised by social injustice and crushed by security apparatus oppression, has existed.

When they were allowed to rally in support of Iraqis or Palestinians it was mainly so that their anger might be deflected from their own governments and towards a foreign threat. For so long, they put their own socio-economic grievances aside to voice their support for the occupied, only to wake up the next day shackled by the same chains of repression.

All the while, both pro-Western and anti-Western governments continued with business as usual - the first camp relying on US support to consolidate their authoritarian rule and the second on anti-Israel slogans to give legitimacy to their repression of their people.

But now people across the region - not only in Egypt and Tunisia - have lost faith in their governments. For make no mistake, when protesters have gathered in Amman or Damascus to express their solidarity with the Egyptian revolutionaries in Tahrir Square, they are actually objecting to their own rulers.

In Ramallah, the protesters repeated a slogan calling for the end of internal Palestinian divisions (which, in Arabic, rhymes with the Egyptian call for the end to the regime), as well as demanding an end to negotiations with Israel - sending a clear message that there will be no room left for the Palestinian Authority if it continues to rely on such negotiations.

In the 1950s and 1960s, millions of Arabs poured onto the streets determined to continue the liberation of the Arab world from the remnants of colonial domination and the creeping American hegemony. In 2011, millions have poured onto the streets determined not only to ensure their freedom but also to ensure that the mistakes of previous generations are not repeated. Slogans against a foreign enemy - no matter how legitimate - ring hollow if the struggle for democratic freedoms is set aside.

The protesters in Cairo and beyond may raise photographs of Gamal Abdel Nasser, because they see him as a symbol of Arab dignity. But, unlike Nasser, the demonstrators are invoking a sense of pan-Arab nationalism that understands that national liberation cannot go hand-in-hand with the suppression of political dissent. For this is a genuine Arab unity galvanised by the common yearning for democratic freedoms.

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