http://www.nena-news.com Questa intervista telefonica è stata rilasciata da Gilbert Achcar, docente presso il SOAS dell’Università di Londra, a Doug Henwood (l’originale sonoro si può ascoltare sul sito: http://www.leftbusinessobserver.com/Radio.html#S110129) il 27 gennaio 2011. Gilbert Achcar è nato in Senegal e cresciuto in Libano. Nel 1983 ha lasciato il suo Paese e adesso vive a Londra, dove insegna presso la School of Oriental and African Studies. Intervista a Gilbert Achcar:Le Proteste in Medio Oriente e nel Maghreb Traduzione dall’inglese di Teresa Patarnello Con gli eventi in corso e quindi dagli esiti imprevedibili al momento in cui è stata rilasciata questa intervista, è comunque utile per individuare le dinamiche che sono alla base di questa ondata di proteste popolari che sta dilagando in Medio Oriente e nel Maghreb. Domanda: Nelle ultime due settimane sono scoppiate delle incredibili rivolte in tutto il Medioriente. Cominciamo con la Tunisia: qual è la tua opinione su ciò che sta avvenendo nel Paese? Risposta: È importante, in primo luogo, chiedersi quali sono le prospettive dal punto di vista politico. Bisogna capire se c’è la possibilità che il regime passato trovi qualche forma di continuità o se verranno apportate delle modifiche radicali almeno in campo politico. Nello scontro, infatti, entrano in scena due forze, che rappresentano due alternative: la possibile partecipazione al nuovo governo dei rappresentanti del vecchio regime e la pressione esercitata dagli esponenti dell’opposizione politica di sinistra, dei movimenti sociali e della federazione sindacale, affinché si crei un nuovo governo, in cui non figurino personaggi provenienti dal vecchio regime. Nella lotta si inserisce l’esercito, che prova a ritagliarsi un ruolo in questi avvenimenti, avendo contribuito in qualche modo alla fuga del dittatore, abbandonandolo, ma continuando d’altra parte a rappresentare una forza di riserva per il regime. Al momento la situazione è abbastanza instabile ed è ancora aperta ogni possibilità se parliamo di chi, in ultima istanza, farà parte del prossimo governo e chi coordinerà l’organizzazione delle elezioni future, che è un’altra delle questioni in campo. D: Attualmente esistono delle formazioni politiche, dei movimenti alternativi che possano inserirsi in questo vuoto politico? R: Sì. Certo, le strutture di regime sono ancora lì, anche se sono indebolite. Lo stesso partito di maggioranza è in stato di decomposizione. Molti esponenti, fra cui anche i ministri, appartenenti a quel partito hanno rassegnato formalmente le dimissioni. Il partito di maggioranza di fatto non ha più la maggioranza. Le strutture repressive, di solito considerate la spina dorsale dei regimi (mi riferisco alle forze di polizia, le forze di sicurezza e via dicendo), ed in misura minore l’esercito stesso, sono divise. Questa spaccatura negli apparati ha sicuramente indebolito il dittatore e l’ha portato alla fuga. Ma il regime, se pensiamo al suo carattere sociale, non è realmente minacciato, nel senso che vi è uno scontro su chi governerà o su chi imporrà la forza nel prossimo periodo, ma la federazione sindacale in sé non rappresenta un’alternativa radicale rispetto a quello che già esiste. Dopo tutto la burocrazia della federazione sindacale, la sua leadership, è coesistita con il regime molto più a lungo di quanto non ci si sia scontrata. È per questo che non rappresenta in sé, nella sua struttura, un’alternativa radicale. Anche se è vero che ha una qualche forma di autonomia. Adesso, ad esempio, all’interno dell’unione sindacale c’è un ripiegamento a sinistra ed è in corso una battaglia politica. Quindi il sindacato è l’alternativa più accreditata, in termini di istituzioni già esistenti, alla struttura tradizionale di regime. Riguardo alle forze di opposizione, il partito Ennahdha, che è un’organizzazione islamica ed ha un background fondamentalista, considerata l’alternativa più forte, è comunque in Tunisia molto più debole rispetto ai suoi corrispettivi di altri Paesi della regione e quindi non può assolutamente ricoprire il loro stesso ruolo. Le cose in Tunisia sono in continuo mutamento. Non possiamo neanche dire con certezza se questo governo cadrà o meno. Attualmente le forze che mirano alla conciliazione sono alla ricerca di un compromesso e dicono: “Bene, adesso dobbiamo lasciare che a decidere sia il popolo e dobbiamo solo preoccuparci che le elezioni siano veramente libere per la prima volta nella storia di questo Paese. Potremo farlo solo grazie agli ultimi avvenimenti: la rivolta popolare.” Per alcuni questo non è sufficiente e la questione centrale resta chi presiederà l’organizzazione delle elezioni, che è poi una questione centrale per determinare la successione. D: Qual è il ruolo giocato dagli Stati Uniti e dalla Francia, l’ex potenza coloniale? R: È curioso vedere come questo Paese sia vessato da istituzioni internazionali/occidentali. Considerando quello che è sempre successo nei Paesi circostanti, la Tunisia è sempre stata considerata un modello positivo, soprattutto dalla Francia. Negli Stati Uniti, invece, (come abbiamo scoperto grazie a Wikileaks) esisteva una certa consapevolezza riguardo al livello di corruzione del regime. Questo è quanto viene fuori dalle pubblicazioni di Wikileaks, ovvero dai report del personale statunitense presente in Tunisia. Da quanto emerge dai documenti, sono tutti d’accordo nel sottolineare l’alto grado di corruzione presente all’interno del regime di Ben Ali. Adesso, il fatto che questo regime sia scosso dalle fondamenta preoccupa molto sia Washington che Parigi per quanto riguarda le possibili ripercussioni e soprattutto a causa dell’ossessione rappresentata dai movimenti fondamentalisti islamici e dalla possibilità che essi possano rappresentare un interlocutore attivo. Ad essere spaventata, però, è soprattutto la Francia, per ovvi motivi di prossimità geografica e a causa dell’ immigrazione tunisina verso il suo territorio. Proprio per il fatto che, come dicevi, la Francia è l’ex potenza coloniale, puoi immaginare quali e quanti siano i legami esistenti fra i due Paesi. Ovviamente sia Washington che Parigi vorrebbero sin da ora stabilizzare la situazione e dire : “Ok, avete avuto la vostra Rivoluzione dei gelsomini”, cercando di inscriverla nella stessa categoria della Rivoluzione delle rose o altre simili. Insomma, niente di temibile, dopotutto. Comunque una manifestazione appartenente alla sfera della democrazia. Nelle ultime analisi è stata addirittura associata a categorie occidentali. Una rivoluzione, insomma, che non ha un reale potere sovversivo, non va oltre le manifestazioni. L’analisi dominante è questa. Anche gli ammonimenti pronunciati dal capo dell’esercito tunisino, le sue dichiarazioni contro il protrarsi delle proteste, sono certamente incoraggiate da Francia e Stati Uniti. Sarebbero contenti, questi ultimi, di vedere segni di continuità nell’apparato politico piuttosto che vederlo minacciato. D: Quindi l’esempio della Tunisia è stato seguito da manifestazioni simili in tutta la regione. La più grande è quella esplosa in Egitto. Cosa pensi stia accadendo adesso in Egitto? R: Sì, la rivolta tunisina ha creato una sorta di onda d’urto in tutta la regione. Gli effetti dell’onda d’urto si sono visti in Algeria, in Egitto, in Yemen, in Giordania. È un movimento esteso e non finirà di certo qui. Gli ingredienti principali della rivolta sono da una parte le condizioni economico-sociali, pessime già da tempo, e dall’altra i regimi oppressivi presenti in tutta l’area. Non dimentichiamo che questi regimi sono privi di qualsiasi forma di legittimità reale. La scintilla di tutto, pertanto, è rappresentata dagli avvenimenti tunisini che danno una lezione importante e per tutti facilmente individuabile: quando le masse scendono in strada a protestare possono vincere la repressione. È per questo che la paura che attanagliava i popoli della regione, sta finalmente svanendo, o per lo meno è molto ridotta. Questo è quello che sta succedendo anche in Egitto. La differenza è che in Egitto la sollevazione non ha avuto un inizio spontaneo, come quella tunisina. Più che altro è stata organizzata dalle forze politiche e in particolare da una coalizione di forze di opposizione al regime di Mubarak, forze liberali e di sinistra, ma anche la più grande forza di opposizione del Paese rappresentata dai Fratelli Musulmani, alla luce di quanto accaduto in Tunisia. Questo tipo di opposizione al regime è figlia di un movimento nato da tempo allo scopo di impedire all’attuale presidente di designare il figlio come suo successore, di ottenere elezioni presidenziali libere e di dare la possibilità a chi ne abbia voglia di partecipare in qualità di candidato alle elezioni, che attualmente sono completamente controllate dal regime. La figura centrale che viene fuori da questa mobilitazione come possibile alternativa al presidente Mubarak è l’ex capo dell’Agenzia Atomica, Muhammad El-Baradei, che è visto dall’opposizione liberale, come dall’opposizione di sinistra e da tutte le forme di opposizione del Paese, come l’unica figura che goda di prestigio sia a livello nazionale che internazionale in grado di rappresentare un’alternativa credibile per l’opposizione. È in atto, dunque, una specie di braccio di ferro tra opposizione e regime. Se continua così, se il regime dimostra di non riuscire a controllare e a fermare il movimento di opposizione, si apre la possibilità che questa dittatura si trasformi e che a prendere il potere sia lo stesso esercito che adesso abbandona Mubarak. Sappiamo che la spina dorsale del regime in Egitto è rappresentata dall’esercito. Lo stesso Mubarak proviene dall’esercito. Andando indietro nella storia, ricordiamo che il Paese è governato dall’esercito ininterrottamente dal 1952 e il fatto stesso che l’esercito abbia deciso di abbandonare Mubarak rappresenta un evento importantissimo. In un modo o in un altro, sia che si formi un comitato militare o qualcosa di simile, è difficile adesso intravedere una prospettiva, perché per ora l’esercito non è ancora riuscito a organizzarsi in maniera strutturata. Non ci resta che aspettare e vedere…
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