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08/03/2011

Che fare? La crisi in Libia secondo il diritto internazionale
di Francesca Borri

La Nato affila le armi, ma la diplomazia è alla ricerca di un equilibrio legale per l'eventuale missione

Il diritto internazionale, è noto, è un diritto ancora rudimentale. Le sue norme sono spesso vaghe: e manca, soprattutto, quello che negli ordinamenti interni distingue le norme giuridiche da norme per esempio solo morali: gli strumenti per una loro applicazione coercitiva.

Tutto dipende, in ultimo, dalla volontà degli stati. E se il diritto internazionale, scrive Hersh Lauterpacht, è il punto di evanescenza del diritto, il diritto dei conflitti armati è il punto di evanescenza del diritto internazionale - il momento in cui il diritto cede alla forza: può mitigarla, non certo frenarla. Quella in Libia, poi, è una guerra civile: ed è l'evanescenza dell'evanescenza dell'evanescenza. Solo pochi anni fa, infatti, con la sentenza Tadic, il tribunale per la ex Jugoslavia ha imposto il principio che quanto costituisce crimine di guerra nei conflitti internazionali costituisce crimine di guerra anche se compiuto in conflitti interni. Sembra semplice logica: è invece una conquista non ancora consolidata, perché gli stati si sono sempre garantiti libertà di azione, libertà di repressione, nei propri confini. A Saddam Hussein era vietato usare armi chimiche contro gli iraniani: ma non contro i curdi iracheni.

L'attuale ordinamento internazionale è imperniato su tre pilastri dall'equilibrio difficile: l'autodeterminazione dei popoli e la tutela dei diritti umani, il divieto di ricorso alla forza e la risoluzione pacifica delle controversie, e l'eguaglianza tra gli stati e il rispetto della loro sovranità mediante la regola della non ingerenza negli affari interni altrui. La pace, per la carta delle Nazioni Unite, è senza dubbio l'obiettivo prioritario, ma in sessant'anni molto è cambiato: e l'attenzione per i singoli individui e la loro vita, i loro diritti, ha progressivamente insidiato l'assoluta signoria degli stati. Spesso la pace non si è rivelata infatti che stabilità, status quo - come nei regimi arabi contestati in questi giorni: e si è ristretta, quindi, l'area del cosiddetto dominio riservato che l'articolo 2.7 sottrae all'intervento delle Nazioni Unite, e cioè l'area di quelle questioni ritenute essenzialmente di competenza interna degli stati. Negli anni il Consiglio di Sicurezza, a cui è affidata la responsabilità principale del mantenimento della pace, ha così qualificato come minacce alla pace non solo scontri tra stati, ma anche violazioni su larga scala dei diritti umani: fino ad arrivare, con Kofi Annan, all'idea della sovranità come responsabilità: come insieme cioè non solo di poteri, ma anche di obblighi nei confronti della propria popolazione. E da qui il passo è stato breve, però, per la teoria della responsibility to protect, edizione aggiornata della teoria medioevale della guerra giusta: non più a difesa della cristianità, ma dei diritti umani, questa volta, come in Kosovo - anche contro, se necessario, la volontà del Consiglio di Sicurezza. Anche in modo unilaterale. Insieme alla definizione di terrorismo e ai limiti dell'autodifesa, è oggi il settore più in fermento e controverso del diritto internazionale. Una prassi variegata affianca le norme esistenti: e non è chiaro quando sia segno di una loro evoluzione, e quando invece, semplicemente, di una loro violazione. Molto è questione di interpretazione: e chi interpreta la legge, avverte Carl Schmitt, decide politicamente - e soprattutto quando le informazioni come in Libia, sono incerte, si aprono pericolosi spazi per le incursioni di una giustizia che non è in realtà che la giustizia dei vincitori.

Per il diritto internazionale, gli oppositori di Gheddafi sono al momento degli insurgents, dei semplici ribelli. Non sono cioè legittimi combattenti: se catturati, non sono prigionieri di guerra, ma criminali comuni processabili per sedizione. Gli stati terzi possono dunque fornire loro assistenza esclusivamente umanitaria. In questo contesto il Consiglio di Sicurezza ha inserito adesso, all'unanimità, la Risoluzione 1970, decidendo un embargo sulle armi e il congelamento dei beni della famiglia Gheddafi, con il divieto di espatrio per tutti i maggiori esponenti del regime. Ma soprattutto, oltre alle sanzioni - misure non implicanti l'impiego della forza, ex articolo 41 della carta delle Nazioni Unite - il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato il Tribunale Penale Internazionale a avviare indagini per crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Senza un mandato di questo genere, infatti, la corte ha giurisdizione solo per crimini commessi nel territorio di uno stato parte oppure da un cittadino di uno stato parte: una giurisdizione, in più, solo complementare a quella delle corti nazionali, esercitabile cioè quando queste ultime non hanno la capacità o la volontà di condurre i dovuti processi. Contromano rispetto alle tradizionali acrobazie e ritrosie lessicali delle Nazioni Unite, è già la Risoluzione 1970, questa volta, a denunciare le violazioni ampie e sistematiche dei diritti umani in corso in Libia, anticipando dunque l'esito delle indagini del procuratore Moreno Ocampo. E la responsabilità individuale, non più solo statuale, per simili crimini è una delle maggiori conquiste, da Norimberga in poi, del diritto internazionale, questo è indiscusso: e tuttavia è singolare che l'intervento del Tribunale sia stato chiesto da un Consiglio di Sicurezza che per un terzo non ha ratificato il suo statuto - cinque membri su quindici. Singolare, inoltre, per degli stati paladini dei diritti umani, la clausola che esclude dalla giurisdizione del Tribunale i non libici, e cioè i mercenari, con passaporto di stati che non sono parte dello statuto - tradotto: i contractors americani già al lavoro nell'area di Bengasi. E forse non è inopportuno, allora, annotarsi a margine della Risoluzione 1970 che il Consiglio di Sicurezza che ha qui agito con tale rapidità e determinazione è lo stesso che nonostante una esplicita raccomandazione della commissione Goldstone delle Nazioni Unite, e documentati crimini, non ha mai chiesto l'intervento del Tribunale Penale Internazionale per le 1422 vittime dell'operazione Piombo Fuso di Israele - e di numerosi altri mattatoi.

Ricordare che il Tribunale dell'Aja è ancora uno strumento imperfetto, a rischio di indebite contaminazioni politiche, è importante soprattutto perché la Risoluzione 1970 è stata votata in riferimento al capitolo VII della carta delle Nazioni Unite, il cui presupposto è "l'esistenza di una minaccia alla pace, una violazione della pace o un atto di aggressione": in questa ipotesi le misure non implicanti l'impiego della forza, come le sanzioni già approvate ex articolo 41, sono spesso solo la premessa per misure ex articolo 42, misure cioè implicanti l'impiego della forza. E si scivola così, veloci, nel variegato universo delle cosiddette missioni di pace. Sono in molti, in queste ore, a proporre un intervento umanitario. In realtà per intervento umanitario - un ossimoro, se la guerra, come dice Gino Strada, viola il primo dei diritti umani, quello a rimanere vivi - si intende, in senso proprio, un intervento come quello della Nato in Kosovo: una guerra avviata cioè senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, per difendere, si spiegò, i diritti umani anche a fronte del veto russo: dunque, per la precisione, una guerra di aggressione in esplicita violazione della carta delle Nazioni Unite. Contro Gheddafi il modello sarebbe, più probabilmente, il peace-enforcing: un intervento condotto cioè forse con il consenso del Consiglio di Sicurezza, ma certo senza il consenso della Libia. Difficile per il resto prevedere altro: perché poi le cosiddette missioni di pace sono estremamente diverse tra loro: possono essere strutturate nei modi più vari, per gli obiettivi più vari: ma anche ad astenersi da ogni altra considerazione morale - e Gino Strada non è solo: già negli anni Ottanta la Corte Internazionale di Giustizia, a proposito del Nicaragua e dell'attività militare statunitense a sostegno dei contras, ha affermato che la pretesa protezione dei diritti umani è incompatibile con l'uso della forza - l'unica caratteristica davvero comune delle decine di missioni di pace istituite fino a oggi sembra essere la loro inefficacia. E le peggiori sono state senza dubbio la Somalia e il Ruanda - esattamente quel peace-enforcing senza il consenso dello stato territoriale che qualcuno progetta adesso di replicare in Libia. Ma d'altra parte il modello da imitare, insegnano nelle università, è quello della prima missione in Libano: così esemplare che a trent'anni di distanza i caschi blu sono ancora lì: insieme, intatte, a tutte le ragioni del conflitto. Eppure, al momento, il freno a un intervento armato è costituito solo da ponderazioni di tipo militare - con l'impegno in Afghanistan e Iraq, si sostiene, non si hanno i numeri e le risorse per un terzo fronte: dimenticando che anche quando si sono avuti abbastanza numeri e abbastanza risorse, è sempre stato un fallimento. E dimenticando, soprattutto, Hannah Arendt: "dato che il fine dell'azione umana non può mai essere previsto in modo attendibile", scrive, "i mezzi usati il più delle volte risultano più importanti, per il mondo futuro, degli obiettivi perseguiti".

Quando si combatte per strada, come in queste ore in Libia, è inutile mentirsi: sono le ore in cui il diritto internazionale ha meno da indicare e garantire: e in cui più è precario il confine tra opportunità e opportunismi. L'esperienza è inequivoca: è dai tempi del fardello dell'uomo bianco che l'umanità è un concetto particolarmente idoneo a espansioni e ambizioni imperialistiche - chi dice umanità, ammonisce Carl Schmitt, cerca di ingannarvi. Naturalmente, sospettare che l'unanimità della Risoluzione 1970 sia cementata dal petrolio e dal gas, più che dai diritti umani, non significa schierarsi con Gheddafi: solo annotarsi a margine dei nobili propositi dell'Occidente che i crimini contro l'umanità commessi in questi giorni non sono solo i crimini di responsabilità della Libia, ma anche le violazioni ampie e sistematiche di quel principio del non-refoulement, del non respingimento, che è il pilastro del diritto di asilo. Il diritto internazionale non statuisce infatti il diritto di asilo, ma più precisamente il diritto a cercare asilo: a raggiungere una frontiera e presentare domanda - perché questa domanda sia valutata individualmente, e non nella forma collettiva e approssimativa degli speronamenti in mare - e il diritto, soprattutto, anche in caso di diniego, a non essere rispediti in un paese in cui si rischia di subire violazioni dei propri diritti fondamentali. Se davvero la priorità fossero la vita e la libertà dei libici, all'Aja avrebbero molto da indagare su entrambe le sponde del Mediterraneo.

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