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da “Europa”
il 23 ago 2011

I “ribelli” libici? Pronti a governare
di Lorenzo Biondi

L’accelerazione degli eventi in Libia ha colto molti osservatori di sorpresa. Non la lunga marcia degli insorti di Bengasi, ma i focolai nell’ovest del paese sono stati decisivi.

Qualche mese fa Shashank Joshi – esperto di Libia al Royal United Services Institute di Londra – ci aveva messo in guardia: la guerra vera non si combatte solo sulla costa, tra Misurata e Tripoli, ma al confine con la Tunisia e nel deserto, dove agiscono le tribù berbere.

Siamo tornati e sentirlo ora che la caduta di Tripoli sembra vicinissima.

Chi la sta vincendo questa guerra: i ribelli di Bengasi o le tribù dell’ovest?

Bisogna considerare tutti i fattori insieme. Ad esempio non si sarebbe arrivati a questo punto senza la Nato, il cui ruolo è andato ben oltre la “protezione dei civili”. L’Alleanza ha fornito un costante supporto aereo e copertura alle operazioni di terra. Solo sabato scorso la Nato ha colpito 29 bersagli a Tripoli. In secondo luogo c’è stata la cooperazione tra i ribelli dell’est e quelli dell’ovest: sono davvero colpito da come il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) sia riuscito a rispettare gli impegni presi.

Avevano detto: abbiamo accordi a Tripoli con alcune unità dell’esercito, che si arrenderanno al nostro arrivo. Ed è andata così. Avevano spiegato di aver già organizzato la rivolta dentro la città, in modo che le diverse aree insorgessero in contemporanea. E sembra che sia andata proprio così. Sono operazioni complesse, che richiedono un buon livello di coordinamento tra diversi gruppi.

I ribelli saranno in grado di coordinarsi anche ora che c’è da costruire la struttura “politica” della nuova Libia?

Non condivido il cinismo di quanti credono che le divisioni tra ribelli porteranno all’implosione della loro alleanza. Da Bengasi dovranno riuscire a persuadere i ribelli occidentali che il Cnt è davvero un governo “di transizione”, pronto ad ascoltare tutte le voci.

Dovranno dar retta a chi ha condotto la rivolta nell’Ovest, inclusi i berberi e quei segmenti della popolazione che in passato avevano sostenuto il regime di Gheddafi. È vero che il Cnt è molto frazionato al suo interno, ma c’è maggiore coesione di quanto non immaginassimo.

Hanno avuto molto tempo ormai per costruire l’alleanza, e non c’è nessun’altra forza in Libia che abbia raggiunto tale unità.

Eppure appena tre settimane fa – quando fu ucciso il leader ribelle Abdel Fattah Younes – discutevamo di quanto poco coesi fossero a Bengasi…

Alla morte di Younes la situazione sembrava caotica, ma da lì in poi la tendenza è stata chiara. Allora i diversi fronti della guerra erano ancora distinti tra di loro e quell’evento ha avuto conseguenze minori del previsto. La cooperazione è diventata indispensabile solo pochi giorni fa, al momento della conquista di Zawiya (porto della Libia occidentale, ndr).

La svolta poi è arrivata quando le montagne di Nafusa, intorno alla capitale, sono finite sotto il controllo dei ribelli (tra il 6 e il 18 agosto, ndr).

C’è stato un coinvolgimento Nato in queste operazioni, magari attraverso la Tunisia?

La Francia ha avuto un ruolo nell’armare gli insorti, anche se il grosso degli armamenti è arrivato dal Qatar. I paesi occidentali però hanno addestrato i ribelli, in particolare le unità coinvolte nelle missioni più complesse.

Ed è probabile che nelle operazioni in Tripolitania ci sia stato un dispiego di truppe speciali dei paesi Nato.

In alcune città della costa si combatte ancora. Ci dobbiamo aspettare altri scontri in quelle regioni?

Assolutamente sì. Non sappiamo quale sia il sostegno per il regime in posti come Sirte, né se a Brega sappiano di preciso quello che succede nella capitale. Ci sarà ulteriore resistenza, ma la guerra la si decide a Tripoli.

E a Tripoli la guerra è finita?

Non ancora, ma è questione di giorni. È difficile dire quanto sia fortificato il quartier generale di Gheddafi, ma quando quel palazzo cadrà sarà la fine della guerra – a prescindere da ciò che succede altrove in Libia.

Nel suo ultimo discorso Gheddafi ha attaccato il neo-colonialismo francese e italiano, senza citare gli Stati Uniti. Ma quanto hanno contato gli Usa in questa guerra?

La loro leadership può essere difficile da quantificare: hanno effettuato i rifornimenti in volo, hanno dato il loro riconoscimento, hanno sorvegliato sulla missione. Si dice “lead from behind” e davvero per fare una guerra non basta la prima linea: ci vuole un’intera rete di supporto, che senza gli Stati Uniti non sarebbe esistita. A Washington hanno avuto i loro problemi interni per giustificare questa guerra, ma chiunque nella Nato riconosce il ruolo americano. Sedendosi “sul sedile di dietro”, gli Usa si sono messi al riparo dalle accuse di imperialismo. Ma allo stesso tempo hanno contribuito a fornire quello che viene percepito come un “bene pubblico” globale: la responsabilità di proteggere.

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