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15 settembre 2011

Chi tradisce i beni comuni
di Claudio Sardo

L’esplicito proposito del ministro Sacconi di sovvertire, anche sull’acqua, il risultato dei referendum di giugno è al tempo stesso sconcertante ed emblematico. Sconcertante perché un’autorità di governo dovrebbe attenersi a un contegno rispettoso delle istituzioni, tenendo per sé le valutazioni personali quando queste confliggono con norme, la cui efficacia giuridica è stata appena sancita da un largo pronunciamento popolare.

Emblematico perché l’esternazione del ministro del Welfare è in fondo l’atto estremo della controffensiva politica e culturale che da tre mesi a questa parte sta tentando di demolire le speranze di quella primavera fondata sulla riscoperta dei beni comuni (e del bene comune).

Ovviamente è inaccettabile un confronto che muova dal presupposto di annullare la scelta compiuta da 27 milioni di cittadini. Lo è per ragioni politiche e costituzionali. Lo è ancor più, se possibile, per la penosa inconsistenza di un governo che ha smarrito l’orientamento e la cui stentata sopravvivenza è un danno obiettivo per il Paese. Ma sarebbe sbagliato prendersela solo con Sacconi. Perché se è doveroso battersi da subito e con la massima energia affinché, almeno sul carattere pubblico dell’intero ciclo dell’acqua, la volontà degli italiani venga rispettata, non si può dimenticare che lo scippo dei referendum si è in buona parte già consumato con la recente manovra di bilancio, che all’articolo 4 ripropone la privatizzazione incentivata e generalizzata dei servizi pubblici locali. In sostanza un ribaltamento del primo quesito referendario, quello che cancellò la norma del decreto Ronchi.

Il governo ha agito con spregiudicatezza. Ma bisogna riconoscere che l’intervento ostile, purtroppo, si è consumato in assenza di adeguati anticorpi. Il comitato referendario ha protestato, denunciato: non ritrovando però quella solidarietà che si era manifestata a giugno. L’Unità ha scritto, prima ancora del varo del decreto, che la spinta dei “beni comuni” stava pericolosamente regredendo di fronte alla montante campagna contro i costi della politica e contro la casta, fondata su validi argomenti ma decisamente indirizzata verso una delegittimazione dell’intera politica (compresa la possibile alternativa a Berlusconi) e verso un rilancio delle privatizzazioni (a partire da quelle rese appetibili dal drastico calo delle quotazioni di Borsa). E siamo stati facili profeti: il governo ha registrato il cambio del vento e rilanciato la privatizzazione dei servizi pubblici. Gli effetti potrebbero essere ancora più perversi per le comunità locali e per i beni pubblici: saranno privatizzate le utilities in attivo, resteranno a carico del pubblico quelle in perdita.

Nessuno, ovviamente, può immaginare una pubblicizzazione coatta. Sarebbe insensata prima che antieconomica. Ma i riformisti non devono più accettare la ricetta liberista come se fosse vangelo, tanto meno quando viene riproposta per evidenti interessi di una ristretta oligarchia. Ciò che occorre ricostruire, e mettere alle base di una nuova filosofia di governo, è una moderna, inclusiva, forte idea di pubblico. Pubblico come bene comune, appunto. Come capacità di comporre gli interessi di una comunità senza sottostare alle pretese delle lobby più potenti. Pubblico non vuol dire necessariamente gestione dello Stato, della Regione, del Comune. Bisogna saper guidare e armonizzare il profit e il non profit, il volontariato e l’intervento diretto dello Stato, l’economia sociale e quella privata. L’obiettivo è garantire i diritti universali, a partire da quelli dei cittadini più deboli: e ciò oggi può avvenire solo in una chiave di autentica sussidiarietà, che è il contrario della privatizzazione dettata da interessi privati, settoriali, oligarchici, corporativi.

Una simile idea di pubblico ha bisogno di una rivalutazione della politica come strumento a disposizione di chi ha di meno. Per questo l’ostracismo e il discredito verso la politica sono stati il propellente principale della controffensiva della destra, che ha mirato in questi mesi proprio al pubblico come bene comune, colpendone i simboli e il linguaggio. La circostanza che pezzi di sinistra, ispirati a un radicalismo individualista, abbiano collaborato alla campagna berlusconiana contro i politici «tutti uguali» e tuttora lavorino alla delegittimazione della politica, non attenua ma aggrava il quadro. La politica deve rinnovarsi, non scomparire a vantaggio degli interessi già consolidati. L’Unità dedicherà ai beni comuni l’inserto di domenica prossima. È tempo di una battaglia culturale, oltre che politica. Il pubblico, l’idea comunitaria ha bisogno di reti di solidarietà umana. L’indignazione individuale produce invece impotenza collettiva. E fa il gioco della destra che vuole demolire il pubblico come ordinatore degli interessi. Il referendum sull’acqua è stato un simbolo. Dobbiamo rilanciarlo.

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